Solitamente le guerre difendono o ribadiscono confini territoriali, nazionali, rispetto a un nemico che minaccia dall'esterno. La guerra in atto in India, invece, ha spostato il confine nel cuore del paese: lungo la cosiddetta cintura rossa (
red belt,
Maoist belt,
MoU belt). Andhra Pradesh, Orissa, Jharkand, Bihar, Bengala occidentale sono le province di cui meno sappiamo e che oggi più soffrono per la violazione di diritti umani e civili, diritti all'abitare, alla terra, alle foreste, all'acqua, alla sanità, alla scolarizzazione. Sono le province dove vivono i più poveri al mondo, i Dalit, i fuori-casta, i fuori-legge. Si tratta delle tribù indigene dell'India, abitanti delle foreste, sin dai tempi che precedono gli insediamenti indù. Da sempre vengono accusati di essere terroristi maoisti, o naxaliti, colpevoli di atroci crimini durante le loro incursioni di guerriglia armata per lo più contro le stazioni di polizia, e per questo vengono perseguitati dalla polizia e dall'esercito federale, e, più recentemente, dalle potentissime multinazionali minerarie che hanno firmato sin dal 2005 accordi di prelazione (
Memorandum of Understanding) con il governo federale. Ma chi sono i Dalit, o Adivasi, e chi sono i maoisti? Gli Adivasi sono popolazioni arcaiche non induiste, aborigene, che seppelliscono i loro morti, che venerano la Terra e la Natura, dea madre, rispettano la donna, in quanto principio di vita, non riconoscono le caste, vivono dei frutti della foresta, di quel poco che riescono a coltivare, di pesca lungo i fiumi. Eppure, non hanno diritto di cittadinanza, vengono sfruttati come braccianti, sottopagati dagli
zamindar, i latifondisti. A loro è negato l'accesso alle cure sanitarie, all'educazione, alla rappresentanza legale e civile. "Non tutti gli Adivasi sono maoisti, ma tutti i maoisti sono Adivasi", così scrive Mahasweta Devi, la scrittrice e attivista che prima di Arundhati Roy si è dedicata alla causa dei tribali (
tribals), guadagnandosi la loro fiducia quale loro portavoce ufficiale, descrivendone gli atti eroici di resistenza ‒ di cui non si trova certo traccia nei libri di storia ‒ in romanzi, racconti, drammi teatrali, reportage giornalistici e film. Cosa voleva dire? Ebbene, i maoisti sono servi della gleba che hanno saputo organizzarsi, armarsi, e che combattono per i diritti delle tribù rurali, al loro fianco, per difendere i lori villaggi dalle continue incursioni della polizia che incendia le capanne, stupra le donne, trucida gli uomini in modi che sono ritenuti esemplari, eppure in piena violazione dei diritti umani. Combattono al loro fianco per incitarli a scioperare e negoziare per i propri diritti, per ottenere prezzi appena decenti per i raccolti. La guerra è stata dichiarata, l'Operazione caccia verde è stata dispiegata persino con mezzi dell'aviazione e truppe speciali addestrate in Israele. Difficile distinguere se a essere uccisi sono i ribelli maoisti o i contadini tribali, civili, per così dire. I tribali sono scomodi e vanno estirpati: considerati alla stregua di
squatters, sono colpiti da piani di rimozione forzata o "strategica" (
Strategic Hamleting). Lo scopo è sottrarre loro le risorse idriche, in favore della costruzione di grandi dighe che deviano il corso dei fiumi, rendono aride terre prima fertili, provocano l'avanzare di acque salmastre nell'entroterra, perché i delta dei fiumi non sono più in grado di arginarle a causa della ridotta portata; sottrarre loro le terre, le colline ricche di quella bauxite che deve alimentare l'industria mineraria e siderurgica locale e cinese. Per la bauxite si uccide, in nome del fondamentalismo capitalista, delle esigenze di mercato dei colossi minerari e siderurgici. La storia si ripete: ciò che accadde in Sudafrica e in Australia, oggi accade in India, poiché il progresso richiede sacrificio, anche di vite umane, anche di intere popolazioni. Gli Ho, gli Oraon, i Kol, i Santhal, i Munda e i Gond sono deboli perché divisi, analfabeti; i maoisti li aiutano a considerarsi un unico corpo che chiede di poter interloquire con le autorità, negoziare, essere ascoltati. Invece, hanno preso il posto dei terroristi islamici nella menzognera propaganda mediatica e sono divenuti il nemico numero uno dello stato. Bambini, giovani e donne, affamati e sorridenti, si muovono in fila nel fitto delle foreste, dormono tra le rocce su teli di plastica azzurra, si spostano e camminano per giorni, in continuazione, partecipano a feste e balli, con il fucile in spalla, però. Si danno appuntamento in posti improbabili, come Arundhati Roy ha sperimentato seguendoli per compilare questo suo
j'accuse, un reportage che raccoglie l'eredità di Mahasweta Devi, e che fa dell'autrice un intellettuale organico dei nostri giorni. Roy non idealizza né romanticizza i maoisti, e neppure la loro ideologia che a Mao si ispira solo parzialmente, quella che Appadurai definirebbe la loro "politica della speranza" la loro "capacità di nutrire aspirazioni", il loro sogno alternativo, dice Roy. Sono violenti e sono costretti a uccidere, devono convivere con le atrocità inflitte o subite da fratelli, mariti, fidanzate, con negli occhi i villaggi bruciati, le imboscate, gli stupri, i cadaveri dei torturati. Ci mostra il volto umano e le ragioni politiche della lotta armata, della guerra civile di un paese votato al progresso, a ogni costo. Carmen Concilio