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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2018
Identità è una parola avvelenata, scriveva l’antropologo Francesco Remotti. Che può diventare un’ossessione. Promette ciò che in realtà non esiste (appunto, un’unica identità) e illude individui e popoli su ciò che non sono (essendo molteplici per composizione).
Per approfondire il tema/problema dell’identità consigliamo vivamente l’ultimo libro di Adriano Prosperi (oggi professore emerito di Storia moderna alla Normale di Pisa, autore di testi fondamentali come Delitto e perdono, Tribunali della coscienza, Cause perse, Giustizia bendata e La vocazione, Einaudi; Il seme dell’intolleranza, Laterza). Il libro è intitolato semplicemente Identità e riprende o rielabora testi precedenti, ma si distingue da altri testi, più o meno recenti, che si sono confrontati con questo problema. E dove appunto «il carattere religioso […] emerge in modo indiscutibile dallo studio di manufatti culturali di tipo speciale, come la nazione, l’etnia, l’identità culturale o di sangue e di suolo, e così via»; mito la cui recente rinascita dimostra «che c’è un problema emergente e non risolto nella cultura e nella società. E se il problema c’è, bisogna prenderlo sul serio».
Un problema che nasce anche dalle scienze dell’io e dalla loro riduzione dell’uomo alla sola (o soprattutto alla prevalenza della sua) biologia, con «il passaggio da un’idea della natura morale del soggetto, a una nozione biologica dell’eredità che l’individuo si porta dietro. Non siamo tornati all’antropologia come scienza che misura i crani. Ma la concezione della psiche umana elaborata dalla teoria freudiana, cioè di una personalità dominata da un messaggio iscritto nel profondo da esperienze della prima infanzia – e che può quindi essere scoperto e decifrato e anche corretto dallo psicanalista – sta mutando a favore di una sottolineatura dell’importanza dei geni ereditati dal seme e dall’ovulo». Che rafforza, nuovamente e pericolosamente le vecchie retoriche/ideologie identitarie di «sangue e terra» oppure di passato che non muore. Di cui è tristissimo esempio il Vecchio continente, che invece di procedere verso un’Europa dei popoli minaccia di rovesciarsi nel suo opposto: a riprova che l’identità come veleno, più che costruire, soprattutto distrugge.
Parafrasando il titolo di Pirandello, Prosperi distingue tre tipi di identità: dell’uno, del nessuno e dei centomila. Quella dell’uno è l’identità come coscienza individuale, molteplice sempre, ma contro cui l’ideologia identitaria «ripropone un’idea dell’uomo a una dimensione, simile a quella combattuta nel 1968 dall’allora famoso scritto di Herbert Marcuse»; il nessuno è l’assenza di identità o l’identità cancellata; mentre il centomila è la coscienza di un’appartenenza collettiva. E qui Prosperi recupera e rielabora molti spunti, tutti essenziali: Le Bon; il Novecento come società di massa e della propaganda; l’identità e il nazionalismo; la nazionalizzazione delle masse, secondo George Mosse; Hobbes e il popolo come collettivo incorporato e sciolto nel e rappresentato dal corpo politico del sovrano; l’Inquisizione come tribunale dell’identità; un’Europa la cui espansione politica ed economica è stata sostenuta con la cancellazione del diverso, da un lato, e la sua assunzione all’interno della cultura dei conquistatori, dall’altro; il disciplinamento dei popoli; il fedele religioso che trascende nel suddito fedele dello Stato; la distinzione tra kultur e civilisation; le comunità immaginate; la querelle sulle radici cristiane dell’Europa; l’invenzione del passato; la scoperta delle identità di territorio (neologismo legato – aggiungiamo – all’economia identitaria dei distretti, del capitalismo personale e ora del nuovo artigiano).
Ma non solo: mentre all’europeismo illuminato ma minoritario si oppone il ritorno di fiamma di particolarismi etnici, ecco che nel lavoro degli storici – è una critica di Prosperi alla sua categoria – «domina non tanto la storia di processi di incontro tra civiltà, quanto la storia delle origini dei singoli popoli intrecciata con la storia della formazione della loro “identità culturale”». Delegando cioè alla storia, scrive Prosperi, «il compito di placare quella che Michael Stürmer, nel 1983 definiva come “quella fame di senso e di identità che prima avevano soddisfatto la religione e la magia”». Per dire che la crisi delle ideologie ci riporta «a un passato che credevamo sepolto: quello di un’elaborazione di storie educative in funzione identitaria, a colpi di falsificazioni sistematiche». Ignorando la dimensione del mutamento e del molteplice, da cui invece (e per fortuna) nessuna storia, individuale e collettiva, è immune.
Recensione di Lelio de Michelis.
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