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Primo e sicuramente ultimo libro che leggo di Cavina, che peraltro non conoscevo. Mi è parso una sorta di Fabio Volo un po' più raffinato (leggasi: meno volgare e maschilista) ma sostanzialmente leggero quasi superficiale. Non so quanto autobiografismo ci sia in questo romanzo, ma a leggere gli altri commenti mi pare di capire che sia una costante dei suoi romanzi e che non ci sia niente di portentoso da portare alla luce dalle proprie vicende personali a volte anche banali. Scorrevole certo, ma poco organizzato, una serie di pensieri in libertà a volte persino ripetitivi, scarsissimo approfondimento psicologico dei personaggi. Come diceva Thoreau: "Quanto vano è il mettersi seduti a scrivere quando non ci si è posti eretti a vivere".
Scusatemi, ma l'eccessivo autobiografismo per me con Cavina sconfina talvolta con il patetico, anche se l'apparente leggerezza del raccontare vorrebbe dimostrare il contrario. Credo che uno scrittore dovrebbe essere capace di inventare mondi nuovi e non mettere in piazza costantemente la sua vita personale, il suo passato che dopo due o tre libri rischia di diventare trito e ritrito. Ho sentito Cavina in un incontro qualche tempo fa e, pur trovandolo umanamente simpatico, ho avuto la sensazione che questa scelta sia davvero strategica. Muovere la curiosità (talvolta la compassione) attraverso un repertorio di aneddoti e di racconti che inevitabilmente alla fine sfociano nel luogo comune della provincia e del presunto intellettuale con le radici contadine e popolari. Comincia a sembrarmi un'operazione furba e mi permetto di consigliare al buon Cavina di affrancarsene. I suoi libri ne trarranno giovamento. Intanto questo non lo promuovo. Mi dispiace.
Un libro dalla lettura scorrevole, ma dal contenuto difficile. Cavina affronta tempi complessi, descrive dinamiche familiari dolorose, il tutto con eccessiva naturalezza. L'autobiografismo dominante risulta difficile da sostenere, anche se il libro vola via in un lampo.
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