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Frutto di due convegni organizzati a Oslo rispettivamente nel 2002 e nel 2003, il testo curato da Kjersti Ericsson, professore di criminologia, e da Eva Simonsen, studiosa di pedagogia medica, indaga il tema delle politiche razziali messe in atto dai nazisti nell'Europa settentrionale, ripercorrendo, sino agli anni del dopoguerra, la vicenda drammatica dei "figli della guerra", cioè di coloro che nacquero dalle unioni più o meno clandestine tra i soldati della Wehrmacht e le donne danesi o norvegesi che "fraternizzarono" con gli occupanti. Situate all'estremo opposto del campo di concentramento, le "Case di maternità" del progetto Lebensborn rappresentarono l'altro aspetto forse meno noto, ma non meno complesso e tragico della politica razziale nazista, tesa a eliminare i gruppi etnici inferiori, da un lato, e ad assicurare il miglioramento della razza ariana mediante un cinico controllo delle nascite, dall'altro. A conclusione della guerra, tuttavia, coloro che erano nati sotto il segno della svastica e destinati a divenire i dominatori del futuro incontrarono una sorte ben diversa, finendo per essere non solo dimenticati, ma spesso emarginati in quanto frutto di un "seme malvagio" e, come tali, ritenuti un pericolo potenziale per la vita democratica dei paesi da poco liberati. Nonostante l'interesse suscitato dall'ipotesi di partenza l'intreccio tra politiche contrapposte di esclusione , il libro dei due studiosi norvegesi risulta tuttavia superficiale nella ricostruzione e nelle conclusioni, quasi del tutto privo di analisi archivistiche, gravemente incompleto (vi è un capitolo sulla Francia occupata, ma nessun riferimento al Wartheland) e, come tale, scarsamente convincente.
Federico Trocini
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