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Il libro più caro a Pavese
Pubblicati nel 1947, i "Dialoghi con Leucò" appartengono alla singolare categoria dei libri tanto famosi - Pavese li volle accanto a sé quando, nella notte fra il 26 e il 27 agosto 1950, scelse di morire e vi annotò come parole di congedo «Non fate troppi pettegolezzi» - quanto negletti. Il che non stupisce: nella sua opera rappresentano una sorta di ramo a parte e oltretutto perturbante. Si stenta oggi a crederlo, ma all'epoca in Italia il mito godeva di pessima fama, mentre Pavese, sin da quando, nel 1933, aveva letto Frazer, stava scoprendo l'opera di grandi antropologi che in quegli anni si ponevano il quesito: «Che cos'è il mito?», sulla base di testi sino allora ignorati o poco conosciuti. Così era nata, in stretta collaborazione con Ernesto De Martino, la Viola di Einaudi, collana che rimane una gloria dell'editoria italiana. E così nacquero i "Dialoghi con Leucò". Tanto più preziosa sarà oggi, a distanza di più di settant'anni, la lettura di questo libro se si vorrà acquisire una visione stereoscopica del paesaggio in cui è nato, dove non mancarono forti reazioni di ripulsa (per la Viola) o di elusiva diffidenza (per i "Dialoghi con Leucò"). Introduzione di Giulio Guidorizzi. Con una conversazione tra Carlo Ginzburg e Giulia Boringhieri.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
In nessun libro, nè nel mondo dei suoi lunghi versi sofferti nè fra le pagine dei suoi romanzi anche più ispirati, Pavese ha raggiunto le sommità che si possono toccare nei Dialoghi. Siamo in un'opera di potenza e mistero senza pari, nel solco di profondi enigmi a cui il mito e la classicità coltivata tentano di offrire soccorso, ma lungo i quali alla fine la truce e sublime complessità della vita, dei suoi dilemmi invincibili, sommerge il poeta ben oltre le parole. Dunque una traversata di domande spesso vinte e vittime nelle chiuse dell'irrisolto, trafitture e rese di un umano che stenta, che riprova, che si spende fra assalti e intuiti, studi e riflessioni, ma sempre per toccare un vento di deserto chino davanti a un qualcosa a cui la luce è negata: " Ma tu sai cosa sono gli uomini? Miserabili cose che dovranno morire, più miserabili dei vermi o delle foglie dell'altr'anno che son morti ignorandolo..." dirà Cratos nel suo dialogo con Bia. Potremmo infatti fermarci ai bordi del miglior silenzio, rispettosi e grati, finendo e finendoci sulle ossa della verità più schiacciante: la morte. Ogni dialogo prova a fissarla e a incontrarla con sforzi immani, fra muse in conflitto e timide fronde di risposta. Ma invano. Quella è la linea spezzata, quello lo scoglio su cui anche la nave più solida geme e naufraga pur dentro un orizzonte nitido. "L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti". E' indubbio che sia il vero testamento di Pavese, un'opera che non poteva che muoversi sul vago chiarore del mito e di lontananze imprendibili più che nel tisico seno della vita, nel sonno degli uomini, di un fare e di un comprendere tarpato e deriso da un destino testardo, amaro. Per questo un capolavoro senza tempo, perchè, pur cadendo, lo risolve.
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