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Tra le prove della vocazione dantesca allo sperimentalismo culturale, al bisogno definitorio e autodefinitorio, all'autoesegesi a distanza, la ritrattazione sulla lingua adamitica, maturata durante la scrittura del poema, assume pieno rilievo ideologico, costituendo, come intuì Contini, "una sorta di blasone interno alla Commedia, ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura". Per chiarire la duplice lettura dantesca, l'autore passa in rassegna le teorie sul linguaggio nella Genesi (I-XI) e nei commentatori patristici e scolastici. Nel libro biblico era contenuta una vera e propria ontologia linguistica incentrata su due problemi fondamentali: l'origine del linguaggio, secondo i racconti della creazione per mezzo della parola divina e della nominatio rerum adamitica, e la confusione post-babelica delle lingue. Una prima difficoltà che la lingua di Adamo poneva agli esegeti era stabilire se questa operasse secondo un processo naturale o convenzionale, ambivalenza destinata ad aprire la questione tutta medievale del rapporto tra signa e res. Sulla scorta dell'autorità patristica, che identificava nell'ebraico l'idioma primigenio, perfetto e incorruttibile, Dante risolveva tale difficoltà a favore dell'unione necessaria dei due termini e accettava la congettura che l'ebraico fosse sopravvissuto alla confusione delle lingue, trasmettendosi dalla stirpe di Sem a Cristo (De vulgari eloquentia I, 6-8). Ma proprio nella Genesi il mito della confusione delle lingue, con cui Dio puniva la superba costruzione della torre di Babele (XI), è smentito dall'ipotesi, suggerita appena un capitolo prima (X), secondo cui la confusione si sarebbe già verificata naturalmente. Una simile "smagliatura nel mito babelico" (Eco) non sfuggiva a Dante, il quale nei versi di Paradiso XXVI accoglierà invece la nozione di una naturale evoluzione delle lingue e di una loro differenziazione precedente l'empia edificazione babelica, negando all'idioma adamitico lo statuto di lingua perfetta ab origine. La nuova concezione della lingua primigenia è esposta dallo stesso Adamo, primo parlante e inventore della propria loquela, nella clausola definitoria de "l'idïoma ch'usai e che fei" (v. 114), laddove fei vale appunto "creai", a indicare che la formazione delle lingue è una prerogativa tutta umana. Creata dall'uomo e soggetta al suo libero arbitrio, ogni lingua muta continuamente con il volgere del tempo e delle generazioni: consapevole di questa perenne mutevolezza Dante arriva a forgiare, con inaudita novità, il mezzo espressivo del poema sacro e della nuova epopea cristiana, assumendo all'interno della propria missione di scriba Dei il compito di novello Adamo, dicitore di verità e primo padre della lingua del sì. Igor Candido
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