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Anno edizione: 2019
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Uno dei migliori monologhi filosofici del secolo scorso. Un avvocato, per scagliare un atto d'accusa contro la società, decide di svestirsi della toga per esprimersi meglio. Ricordo un vortice di pensieri che mi mordeva il cervello, una spirale di intelligenza cristallina, che tendeva a confondersi con l'acqua affiorante della coscienza: tutto galleggiava, tutta la nostra coscienza era immersa in un velluto equoreo. "Felicità e successi si perdonano se uno acconsente generosamente a condividerli. Ma per essere felici, non bisogna occuparsi troppo degli altri. Quindi, non c’è via di scampo. Felice e giudicato, o assolto e miserabile".
Piccolo ma intenso. Camus riflette, in quella che dovrebbe essere una conversazione tra due individui, ma che si rivela un monologo scorrevole e a tratti ironico; sul concetto del Giudizio verso noi stessi e verso gli altri.
"Non vorrei sembrarle importuno, signore, ma mi permetta di venirle in aiuto." (p. 5) Se è ben scritto, in fondo, l'incipit di un romanzo rende quasi superfluo il resto del libro. Ed è il caso della prima frase de "La caduta", terzo romanzo di Albert Camus, uscito nel 1956, nella quale traspare quella che è, a mio avviso, la principale tematica dell'opera: l'ambiguità. Ambiguo è il protagonista, l'avvocato parigino Jean-Baptiste Clamence, già avvocato di fama, noto per la sua bravura e per la sua generosità, e ora ritiratosi dalla professione per farsi - sono parole sue - "giudice-penitente" in un infimo locale di Amsterdam. Ambiguo è il suo atteggiamento attuale, caratterizzato dall'abitudine di trascorrere le proprie serate attaccando bottone con gli avventori del locale per dialogare con loro, ma senza poi far dire loro neanche una parola, travolgendoli con la propria eloquenza e con la confessione dei propri difetti. Ambigui sono il finale dell'opera - che, ovviamente, non riporto - e, soprattutto, il messaggio generale del libro, nel quale il protagonista oscilla tra istanti di vitalismo quasi demoniaco e ampi spazi di nichilismo ironico e disincantato. Camus è autore difficile e stilisticamente perfetto e anche questa volta, come nel caso dei precedenti "Lo straniero" e "La peste", il suo romanzo si è lasciato divorare in poche ore. Ecco Camus: la perfezione dello stile a braccetto con la serena disperazione dei personaggi. "Mi creda, le religioni sbagliano quando cominciano a fare la morale e a scagliare comandamenti. Non c'è bisogno di Dio per creare la colpevolezza, né per punire. Bastano i nostri simili, aiutati da noi stessi. Lei menzionava il Giudizio Universale. Senza offesa, mi permetta di riderne. Io lo aspetto a piè fermo: ho conosciuto di peggio, il giudizio degli uomini." (p. 71) "Ah, caro mio, quando sei solo, senza dio né padrone, il peso dei giorni è terribile. Sicché un padrone dobbiamo scegliercelo, visto che Dio non va più di moda." (p. 85)
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