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Le armi del principe. La tradizione militare sabauda - Walter Barberis - copertina
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Le armi del principe. La tradizione militare sabauda - Walter Barberis - copertina

Dettagli

1988
1 gennaio 1997
XXII-342 p., ill.
9788806113858

Voce della critica


recensione di Mozzarelli, C., L'Indice 1989, n. 5

C'era una volta un re, come nelle favole, che aveva un esercito e un popolo guerriero. E poteri magici: aveva creato e sempre più rafforzato un suo stato macchina, dove grazie a burocrazia ed esercito, ad un rapporto lineare e gerarchico con loro, sapeva disciplinare - e modernizzare - l'intera società, nobili e ignobili, ignoranti e dotti. Era quel sovrano altresì povero e virtuoso. Mentre altri re (o duchi, anche lui lo era stato a suo tempo) in altre favole, "frolli di vizi e consunti di vecchiezza" passavano il tempo in orge ed intrighi, lui piuttosto andava a caccia, viveva 'au grand aire' e la sua corte era segnata "dalla vita modesta e severa, a carattere prevalentemente militare". Probabilmente incontrava i pastori, e ammirava le pastore, come un suo tardo discendente.
C'era una volta insomma questo bel re, e adesso non c'è più. "Ancora una volta, a ridosso d'una guerra, il sovrano sabaudo aveva esercitato il suo potere di coinvolgere nel profondo la società piemontese mettendola anche indirettamente al servizio d'una logica che era statale e insieme personale: ma era anche nuovamente successo che la catena di interessi su cui si equilibravano le gerarchie sociali sul territorio e le gerarchie dei poteri negli apparati burocratici dello Stato avessero reagito a quel gesto d'imperio assoluto ripristinando la forza e le regole di una sia pur sbilanciata - ma costante e inevitabile - contrattualità".
La catena degli interessi, la contrattualità contro l'imperio, le gerarchie sociali e quelle burocratiche apparentate, le regole contro la volontà, e un sovrano - qui è Vittorio Amedeo II - sconfitto dai suoi sudditi? Oh, com'era tutto più semplice nella favola dove "nato dal calcolo e dalla riflessione" del Principe (che "è solo sulla scena") appariva prodigioso lo "Stato come opera d'arte", lo Stato "moderno", sovrano e necessario. Ahimè, di tanta astuzia, di tanta volpe e di cotanto lione resta poco dopo la lettura del libro di Barberis.
Con molto e impassibile garbo egli infatti ci mostra che non si hanno "spontanee adesioni popolari alle scelte di un'epica monarchia, e neppure... ferree irreggimentazioni senza scampo per una supina massa di sudditi"; così dal principio della vicenda nel XVI secolo, quando Emanuele Filiberto prende possesso degli "Stati sabaudi" fino alla Restaurazione postnapoleonica, a Carlo Alberto e alle premesse dell'unità. E tuttavia ciò che rende il libro appassionante non è scoprire che le cinquecentesche "milizie paesane", che così bene si accordavano con le idee del Machiavelli - moderne e razionali nelle pagine dei professori dell'Ottocento (anche quando siano nostri contemporanei) - malamente vissero e poco durarono. Nemmeno il trovar documentata all'altro estremo la strabiliante impreparazione tecnica dell'esercito e dell'ufficialità piemontese nel '48-'49, - quando a dispetto di quella disciplina militare di cui tanto si faceva conto e si menava vanto in tempo di pace ad una dura sconfitta si andò incontro, e dopo essersi dovuti affidare ancora una volta (come si era fatto costantemente fino al Settecento) a dei mercenari. A quel generale polacco Chrzanowsky di cui a scuola si diceva, se non ricordo male, esser la responsabilità della fatal Novara perché non parlava italiano e non si intendeva dunque con i sottoposti.
Dicevo, l'importanza del libro non sta, o meglio non sta solo, nella ricostruzione delle strutture e caratteristiche dell'esercito sabaudo, e nemmeno certo nell'ipotetico narrarci una 'antistoria' delle armi piemontesi dove disperazione di popolo e follia di generali prendano il posto di valore e intelligenza, dove a mito si sostituisca mito, quanto nel proporci una possibilità di lettura delle vicende delle "armi del Principe" che supera l'impasse interpretativa di storia ufficiale e controstoria alternativa, o anche di storia politico militare e istituzionale dall'alto contrapposta ad una storia sociale dal basso, e così via. Come afferma Barberis ritrovando negli infausti esiti della prima guerra d'indipendenza le ragioni d'un trend secolare "la tradizione militare sabauda... rivelava il suo punto debole e la sua originalità... Si dimostrava una tradizione fatta di pratiche diplomatiche, di tenzoni letterarie, di speculazioni scientifiche, di manovre politiche; e soprattutto, di organizzazione e di acculturazione della società civile. Ma, dopo secoli di battaglie, doveva anche esibire la subalternità a tutto questo della sua specifica cultura tecnica. Intesa come universo ideale o come occasione di affari, come luogo del contratto fra Stati o come terreno di formazione delle proprie élites, la guerra [in Piemonte] non era mai stata concepita come la forma estrema e più strutturata dell'aggressione fisica"; insomma allora come nei secoli precedenti (e in quello venturo?) "la pratica militare avrebbe continuato a cedere il passo a una idea della militarità".
Dietro a questo fatto stava però a metà Ottocento ormai, come l'autore ci mostra nelle trasformazioni della ufficialità colta lungo i decenni precedenti, la riuscita condotta della nobiltà, la quale "aveva trovato modo di convivere con ceti che non ne avevano discusso la supremazia; [e che] in buona misura era riuscita ad organizzare al proprio interno la successione a se stessa; soprattutto aveva trovato il modo di far ricadere sull'intera società piemontese - e di farlo universalmente sentire come proprio - il sentimento di appartenenza a una tradizione: militare, appunto, a misura che quel termine riusciva a far coincidere le virtù archetipiche del gentiluomo con gli elementi etici essenziali di una società ordinata".
Come dovrebbe ormai apparire chiaro il lavoro di Barberis, pur puntigliosamente centrato - e archivisticamente documentato - sulla vicenda sabauda, si rivela essere in realtà una ampia riflessione sulla sostanza dell'antico regime, sulla sua specifica qualità e su come di essa si sia usato, e a quali condizioni, ancora dopo la Rivoluzione. E sono questioni entrambe intorno alle quali è di questi tempi acceso il dibattito, poiché oltre la crisi già conclamata della storiografia affascinata da modernizzazioni e razionalizzazioni che sopra abbiamo messo in caricatura (ma le citazioni esplicite e quelle implicite sono tutte vere!) e che nelle sue differenti versioni ha monopolizzato le ragioni del presente e il senso del passato, appare ormai necessario, per ridare prospettiva al futuro, ritrovare una differente memoria del passato.
Il pregio e la novità del volume stanno allora nella capacità che l'autore dimostra di tratteggiare oltre i vecchi schemi per l'appunto, una nuova e per noi più credibile figura dell'antico regime ove strutturalmente coesistono contrastanti interessi e differenti bisogni, idealità parziali e molteplici culture, tutti elementi che soggetti politici per tutto ciò diversi fra loro, e nelle loro finalità, usano e intrecciano senza che mai un filo ci possa restituire da solo il colore della trama o una vicenda possa esser letta da un punto di vista tanto privilegiato da divenire unico e assoluto.
L'esercito sabaudo diventa strumento e luogo per la definizione e ridefinizione dell'ordine sociale: l'occasione di privilegio offerta dal duca a chi entra nelle milizie paesane serve a lui per modificare anche il quadro delle alleanze sociali, allo stesso modo il riconoscimento che egli offre ai nobili attraverso le cariche militari del loro ruolo di governo locale li integra (parzialmente) nei suoi disegni. E questo per stare alle sole intenzioni del soggetto politico Principe. Non era peraltro nel Cinquecento la via e la metafora delle armi l'unica possibile per i Principi, ma è certo quella attraverso la quale nei domini sabaudi si esce dal Medio Evo e si struttura il sistema dell'antico regime, quella attraverso la quale un Principe di fatto nuovo e senza altre risorse riesce a ripristinare dapprima, e articolare poi via via, la propria supremazia entro un territorio già tanto fortemente segnato da prerogative ed istituzioni a lui divenute sostanzialmente estranee. Da ciò quella torsione della pratica militare in uso retorico della milizia che caratterizzerà l'esperienza piemontese (senza mancare come ingrediente di altre combinazioni nemmeno presso gli altri principi), da ciò anche il ridimensionamento di quelle esperienze 'moderne' come l'Accademia delle Scienze, che tanto orgoglio e fatica di ricerca hanno indotto negli storici.
Ma di nuovo è questo un caso esemplare, la prova provata d'un risultato che, conseguito nel contesto piemontese, vale a comprendere o almeno interrogare meglio, io credo molti aspetti della vicenda italiana ed europea nel secolo dei lumi: il fatto cioè che "il secolo XVIII, sia pure in un clima di riforme che per molti aspetti ammodernavano le strutture dello Stato, si delineava in continuità, ed anzi presentava fenomeni di accumulo, rispetto ai meccanismi fondamentali che avevano regolato i rapporti fra Stato e società nel secolo precedente" (p. 163). Non diversamente Doyle parlando in generale può egualmente scrivere che l'illuminismo è l'ultimo frutto dell'antico regime piuttosto che il suo superamento; o per dirla nuovamente con Barberis "illuminismo e antico regime, nel Piemonte di fine secolo, confondevano largamente il significato contrapposto delle loro luci crepuscolari".
Né si prenda quel "contrapposto" fuor dal contesto, dal fatto insomma che grazie a Barberis le armi del Principe divengono "metafora [anche] di ogni antagonismo [storiografico pure, aggiungo io] e di ogni prevalenza di antico e moderno", sotto il segno di una finale ambiguità - riconosciuta come necessario stile di vita da un Cesare Saluzzo ad esempio - molto più illuminante tuttavia, per lo storico, delle passate chiarezze.

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