Il caso di Ellen West, resoconto clinico reso celebre dal saggio omonimo di Ludwig Binswanger (ripubblicato nel 2012 presso Einaudi), torna a proporsi alla nostra attenzione grazie a questo volume interdisciplinare in cui le voci di psichiatri e psicoanalisti come Livio Capocaccia, Antonio Ciocca e Filippo Maria Ferro si intrecciano a quelle di pubblicisti come Marco Bettoni Pojaghi e Marta Rizzo. Il libro, attraverso angolature diverse, riprende e avvalora i dubbi sollevati a suo tempo da Albrecht Hirschmüller (
Ellen West, Asanger Verlag, 2003) e propone ulteriori domande inquietanti sull'andamento di una vicenda ancora circondata di mistero. La protagonista di questa vicenda, al momento del suo suicidio avvenuto nel 1921 in circostanze tutt'altro che chiare, era all'epoca paziente della clinica Bellevue diretta da trent'anni da Ludwig Biswanger. A quest'ultimo, che ne scrisse la storia nel 1943, si deve lo pseudonimo con cui la conosciamo tutt'ora: West come la Rebecca protagonista del dramma di Ibsen
Rosmersholm, che, dopo aver sconvolto le vite di vari personaggi, si suicida in cerca di riscatto. Di famiglia ebraica facoltosa ma funestata da svariate patologie che avevano afflitto molti dei suoi componenti, era nata oltreoceano nel 1887, ma risiedeva abitualmente in Germania. La sua vita ci appare esemplare anche per il tragico andamento che subisce un'accelerazione decisiva negli ultimi anni. Intelligente e colta, deve misurarsi fin dall'adolescenza con tutte le restrizioni imposte alle donne del suo tempo: gli amori vengono sempre contrastati perché considerati inopportuni socialmente, le aspirazioni letterarie e professionali non trovano uno sbocco soddisfacente. Fin dall'adolescenza Ellen inizia a soffrire di forti sbalzi di umore che sfociano in una lotta disperata con il cibo. Oggi la definiremmo un'anoressica con forti spunti ossessivi, ma all'epoca persino la diagnosi che ci viene offerta è oscillante e poco persuasiva. Nei suoi diari che la famiglia ha conservato, si registra una lotta senza quartiere che la mente di Ellen inizia a intraprendere precocemente contro il corpo. Il cibo rifiutato occupa però come un nemico tutti i suoi pensieri, segnalandole vanamente l'urgenza e la qualità dei bisogni disattesi. Così Ellen, invece di rendersi conto che proprio il forzato adeguamento alle richieste paterne, unito a una intensa paura di vivere, le impedisce, come suggerisce Antonio Ciocca nel bel saggio a lei dedicato, di "poter essere sé", persevera nella negazione dei propri impulsivi vitali. In lei, come succede spesso a chi soffre di disturbi dell'alimentazione, i parametri vita-morte vengono rovesciati: ciò che porta a morire, ossia la rinuncia al cibo equiparata alla soppressione delle necessità considerate improprie del corpo, è concepito inconsciamente come una conquista vitale. Ma i bisogni dissociati, come in certi incubi raccontati da Kafka, ritornano sotto la forma ossessiva di rappresentazioni di cibi di ogni genere che invadono la mente e ostacolano ogni progetto. Dopo il matrimonio con il cugino Karl, praticamente impostole dai genitori, Ellen, che frequenta ambienti colti e raffinati, inizia ben due volte una cura psicoanalitica, incorrendo in terapeuti di buona volontà ma visibilmente non in grado di aiutarla. Del primo, von Gebsattel, sente che le può dare solo una comprensione astratta del suo malessere: oggi diremmo, utilizzando le parole di Wilfred R. Bion, che nella sua terapia la conoscenza (K) prevale sull'esperienza autentica di sé (O). Dopo von Gebsattel, sostituito rapidamente perché segue le orme di un fanatico e si allontana dalla psicoanalisi, Ellen tenta una cura con von Hattimberg, forse più preparato ma troppo preso dai propri modelli teorici per seguirla adeguatamente. In un sogno eloquente Ellen lo vede con le braccia amputate, che ha dovuto farsi tagliare "per dimostrare che è disposto a tutto per le sue convinzioni". Inutilmente Ellen cerca di fargli capire i suoi bisogni emotivi mettendo in atto dei tentativi dimostrativi di suicidio che finiscono solo per provocare il suo ricovero nella clinica di Bellevue. L'affidamento a Biswanger che la considera "una schizofrenica simplex" conferma Ellen nel suo rifiuto della vita, avallato dal marito e da Biswanger stesso, il quale acconsente praticamente al suicidio accettando di dimetterla dopo che "la paziente ha dichiarato di voler assumere su di sé la responsabilità della sua vita". Ellen trascorre il suo ultimo giorno di vita leggendo e mangiando finalmente pacificata i suoi cibi preferiti. Scrive il marito: "nella morte sembrava come non è mai stata per tutta la vita, tranquilla e felice e piena di pace". Per Biswanger "la presenza (
dasein) era diventata matura per la sua morte". A noi resta tuttavia ancora aperta la domanda: chi ha ucciso Ellen West? Alessandra Ginzburg