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Nella sua ultima fatica, Vocazione e lavoro, Mario Miegge torna a interrogarsi attorno a nodi che hanno caratterizzato larga parte della sua riflessione storica e filosofica. Il rapporto tra vocazione e lavoro, fondante la nascita della modernità e quindi dell'individuo, fino ai giorni nostri di vera e propria crisi della modernità. Il volume è da un lato agile e rivolto a un pubblico colto ma non specialistico. Dall'altra ci troviamo di fronte a un libro che, grazie al padroneggiamento della materia da parte dell'autore, fornisce gli tutti gli elementi fondamentali per una riflessione approfondita sul tema.
Innanzitutto si tratta di un libro assai particolare nel panorama editoriale italiano. Mario Miegge è infatti di cultura protestante e di formazione marxista, e questo intreccio dà luogo a un punto di vista specifico e, dal mio punto di vista partigiano, assai interessante. Così nella prima parte del libro Miegge ci illustra la dottrina calvinista e puritana della vocazione, da Ginevra all'Inghilterra e dall'epoca di Elisabetta I all'epoca della Restaurazione. Questa illustrazione e lettura critica si pone in evidente dialettica critica rispetto alla nota elaborazione di Max Weber su L'etica protestante e lo spirito del capitalismo. Si tratta di una parte assai importante del libro perché permette al lettore italiano di misurarsi con una lettura del fenomeno calvinista e puritano e alla relazione tra questo e la nascita del capitalismo assai diversa dal quella proposta da Max Weber e ancora di più dalla vulgata italica dello stesso.
Il libro non è però un libro di puro confronto teoretico con i classici. Il fatto stesso che i temi della vocazione e del lavoro ne compongano il filo conduttore determina una feconda tensione dialettica. Come Miegge stesso sottolinea: "Differenti e talora distanti appaiono infatti le aree di linguaggio e i contesti di cultura e storia in cui i due termini sono radicati e hanno auto maggior peso e rilevanza". Conseguentemente Miegge ci propone un confronto serrato e critico con i "classici" contemporanei, a partire da Hanna Arendt, Ulrich Beck, Jeremy Rifkin.
Infine, com'è tipico nell'impostazione di Miegge che non a caso ha fatto parte della redazione di "Quaderni Rossi" ed è molto legato al tema dell'inchiesta operaia il confronto si sposta decisamente sui nodi di oggi, a partire dalle esperienze e dalle elaborazioni che partono dal vissuto di un sindacalista estremamente attento e intelligente come Sandro Antoniazzi.
Producendo un significativo grado di semplificazione ma non di forzatura, mi pare di poter affermare che il filo rosso che attraversa il libro è così sintetizzabile: una corretta rilettura del tema dell'etica del lavoro protestante permette di cogliere le origini della modernità e di impostare correttamente il tema del "senso" e dei frutti del lavoro, nodo centrale in una fase in cui il capitalismo mostra appieno il suo volto distruttivo. Per esemplificare, dando ancora la parola a Miegge, questi sottolinea come "La filiera alimentare è diventata una vera e propria catena del terrore".
Il confronto con i classici della riforma quella protestante si intende non è quindi fine a se stesso o a scopo di pura erudizione. È un confronto che apre le porte alla discussione sull'oggi e riguarda gli enormi problemi culturali, filosofici e politici relativi al lavoro oggi. In un'Italia in cui le tesi di Guy Debord sulla società dello spettacolo hanno trovato piena e drammatica realizzazione, il libro di Miegge è quindi un libro estremamente materialistico. Ci riporta al fatto banale che noi uomini e donne passiamo la maggior parte del nostro tempo a lavorare e che quindi l'interrogarsi attorno al senso della nostra principale attività in quanto umani è parte decisiva della costruzione di un "novello rischiaramento" a cui molti di noi tendono. Da questo punto di vista il libro di Miegge non è certo un "istanti book" ma ha invece le caratteristiche del "classico" che si misura con i "fondamentali" e dà un contributo alla riscrittura di un'analisi e di una prospettiva più che a una narrazione.
Infine un elemento critico: il pensiero del principale pensatore del lavoro il vecchio di Treviri rimane un po' sullo sfondo. Fa parte del bagaglio culturale di Miegge e lo si riconosce chiaramente nell'impostazione ma non vi è un confronto ravvicinato con la sua elaborazione che, a mio parere, ha un grado di attualità sconvolgente. Tra i puritani e Hanna Arendt, penso che il confronto con il nucleo di fondo posto da Marx, a partire dal nodo del superamento del lavoro salariato, sia imprescindibile. Tanto più in questa fase in cui una crisi, che è contemporaneamente economica, ambientale, sociale e di civiltà, segnala come il capitale non sia più in grado di mediare efficacemente lo sviluppo del genere umano. Ma anche questa critica immagino costituisce una notazione di parte.
Paolo Ferrero
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