Fausta Garavini si era già cimentata con il genere romanzo storico. Tuttavia, mentre gli altri libri (
Nel nome dell'Imperatore, Cierre, 2008, e
Diletta Costanza, Marsilio, 1996) avevano intrecciato vicende storiche a ricerca psicologico-introspettiva, questo è innanzitutto un romanzo visivo prima che biografico e psicologico; ci fa vedere
, più che sentire, poiché ha l'ambizione di mostrarci l'interiorità del protagonista attraverso quello che vede. La storia è quella di un pittore francese realmente esistito, François de Nomé. Venuto in Italia, come tanti altri pittori del Nord, s'installa prima a Roma, nei primissimi anni del Seicento, e poi a Napoli, ove rimane almeno sino al 1624; dopodiché se ne perdono le tracce. Il romanzo è dunque una storia di pittura, ma contiene anche un ampio affresco d'epoca. L'autrice ricostruisce innanzitutto l'ambiente romano in piena Controriforma e Garavini ci mostra tutti questi mutamenti con gli occhi di uno straniero, il giovane pittore venuto dalla Lorena, già a quei tempi terra di confronto tra cattolici e protestanti. Davanti agli occhi di Francesco scorrono tutti i temi che hanno reso grande e terribile questo periodo. Roma appare a tratti come una "nuova Babilonia", mentre l'eco del supplizio di Giordano Bruno è ancora forte. La vita di strada è vivacemente rappresentata, con tutte le sue fortunose peripezie: gli agguati mortali, le taverne, il tumulto delle proteste e le gioie del carnevale, le magnifiche cerimonie che, volendo rendere visibile il trionfo della fede, sortiscono invece l'effetto opposto, come se "Dio si fosse ritirato negli abissi del suo nulla". Il Seicento è anche l'epoca in cui lo spettacolo della natura assurge a tema centrale e nel romanzo questo aspetto è ben rappresentato, con ricchezza di informazioni storiche e rapide pennellate di colore. Sono gli anni in cui Federico Cesi fonda l'Accademia dei Lincei, cioè di coloro che hanno la vista di lince per osservare i dettagli più fini della natura; è anche il periodo della prigionia di Campanella, che dalla sua cella nel pozzo di Sant'Elmo riesce a diffondere un pensiero indomabile e un progetto di rinnovamento. Ma è soprattutto lo spettacolo di Roma a occupare per intero lo sguardo di Francesco: la Roma antica dei grandi monumenti classici ora in rovina, e la Roma del presente con le nuove magnifiche fabbriche che soppiantano le precedenti. Si dirà che questo è un tema ben noto del Rinascimento e del Seicento: interi musei sono pieni di "vedute" di Roma antica e moderna. Ma quello che vedeFrancesco è diverso dalle solite "vedute", e proprio in questo sta la chiave del romanzo. "Vorrei dipingere quello che non si vede dietro tutto questo". Per riassumere con una sola parola, è il tempo,più che le cose, che il pittore cerca di catturare con gli occhi prima e con il pennello poi. Il dono di Francesco (ma sarà un dono ambivalente, tanto prezioso quanto doloroso) è una specie di "visione doppia", per cui, quando passa davanti a un magnifico palazzo, lo vede crollare e disfarsi, "come se guardasse con gli occhi del futuro". Al suo sguardo, la Roma dei Papi può diventare uno scenario di distruzione e di macerie, non diversamente dalla Roma dei Cesari su cui si erge superba. "Tutto va in pezzi. Il presente è già instabile". Questo è il motivo dominante del romanzo, così come lo fu per la pittura di François de Nomé. I quadri riprodotti nel libro lo mostrano con chiarezza, ma ci voleva la scrittura penetrante di Fausta Garavini per farcelo vedere al meglio. Il tema ricorrente delle pitture di Francesco sono architetture classiche e monumentali (colonne, facciate, templi), rappresentate soprattutto nel momento del crollo e del disfacimento. Non si tratta dunque delle vedute pacate e quasi romantiche di un Poussin, bensì di emblemi misteriosi e tragici, che rappresentano una classicità profondamente instabile, travolta nel fluire del tempo. Soprattutto nella seconda metà del romanzo, ambientata a Napoli, questo tema del tempo si salda con la nuova visione della natura tipica della prima metà del Seicento, in particolare con l'ermetismo, il naturalismo, con la proposta di una religione naturale e universale in contrapposizione a quella della Chiesa di Roma. Ma affiora anche la memoria dei culti antichi egiziani di Iside e Osiride, simboli del nascere e del morire nel circolo eterno della natura. Su questo sfondo complesso e affascinante, la pittura di Francesco assume significati sempre più profondi e spiazzanti. Francesco non è pittore di paesi o di figure: "Le sue architetture fatate narrano la traversata dei tempi, il farsi e i disfarsi dei mondi, la labile sedimentazione delle cose". Per di più, nelle vaste cavità delle sue architetture, all'apparenza chiese cristiane, compaiono scene sconcertanti: sacrifici di tori, danze di coribanti, statue d'idoli, iscrizioni criptiche. A suo modo, anche Francesco partecipa del gran sogno campanelliano di una Controriforma
sui generis: sotto la protezione della monarchia universale spagnola, avrebbe dovuto prendere forma una riforma del cristianesimo di tipo neoplatonico (volto più al culto del bello che del dogma), ermetico (teso alla rigenerazione del mondo e della società), naturalistico (aperto allo studio del gran libro della natura), magico (ma non stregonesco, nel senso cioè della conoscenza dei poteri nascosti della natura). Un'utopia? Certamente, ci dice la storia, ma per alcuni decenni essa rappresentò il programma di una "terza via" italiana tra Riforma e Controriforma. Sappiamo che fu solo un sogno, come furono un sogno, una visione straniata, le architetture dipinte da Monsù Desiderio. Un romanzo non è un'opera di storia, anche se a volte la contiene e la illumina, come avviene in questo caso. Un'opera narrativa vuole essere innanzitutto una storia di individui e risponde al problema dei singoli, personaggi o lettori poco importa. Qual è la domanda che ci rivolge
Monsù Desiderio? Potremmo formularla così: come può vivere chi
vede il tempo più che le
cose e questo tempo vuol farlo
vedere agli altri, rappresentando nelle sue pitture quello che solitamente non si vede? La risposta è implicita nella parabola del protagonista. Gli anni di Napoli avrebbero dovuto essere il periodo felice di Francesco, quando divenne un pittore affermato. Ma gli amici e i maestri muoiono, l'amata Isabella soccombe quando sta per dargli un figlio; tutta l'esistenza di Francesco diventa quello che in fondo era sempre stata, una
vanitas, cioè una di quelle pitture che rappresentano la "vanità" del tempo e della vita. Francesco "non si ribella alla morte, ma alla vita, al dolore insensato della vita". In precedenza, di lui si era detto che dipingeva "l'avvenire", forse "un'altra idea di mondo", ma il risultato finale è amaro. A prevalere è il senso di estraneità. "Francesco si sente distante, preso da un senso di irrealtà, di finitudine, di sgomento (
) Un cristallo che s'incrini, che stia per spezzarsi". Le ultime pagine ce lo descrivono mentre lascia Napoli, non si sa per dove né perché. Fausta Garavini è cresciuta alla scuola di "Paragone", dove arti e letterature si sono sempre intrecciate e fuse. Per la forte potenza visiva che domina in questo romanzo, ha cercato di farci vedere quello che stava scrivendo. E ci è riuscita. Gianni Paganini