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Anno edizione: 1999
Anche se inserito in questa rubrica, sarebbe oltremodo riduttivo considerare il libro di Debray soltanto per le parti in cui si riferisce più esplicitamente al cinema e al suo ruolo nella storia dell’immagine, poiché si perderebbe di vista la complessità dell’opera e la sua reale portata nel dibattito sulle prospettive della nostra società audiovisiva. L’autore stesso sfugge a ogni classificazione schematica: imprigionato in America Latina tra il 1967 e il 1971, intervistatore di Salvador Allende nel film di Miguel Littin El compan˜ero presidente (1971), consigliere di Mitterand tra il 1981 e il 1988, saggista e filosofo, oltre che polemista ardito. L’ultimo esempio è la sua Lettera di un viaggiatore al presidente della Repubblica, nata da un viaggio in Macedonia e in Kosovo e pubblicata su "Le Monde" lo scorso 13 maggio, in cui rimproverava a Chirac di avere una percezione errata dei motivi e dello svolgimento del conflitto nei Balcani. La lettera ha scatenato una violentissima polemica su tutta la stampa francese, a cui Debray ha risposto con un lungo articolo che smonta gli ingranaggi di una macchina da guerra simbolica e mediatica, che si può leggere nel numero di giugno dell’edizione italiana di "Le Monde diplomatique". Il riferimento a tali vicende appare pertinente con il libro, il cui sottotitolo ambizioso propone una storia dello sguardo, ammonendo subito il lettore sul fatto che le immagini hanno un significato nel momento in cui sono viste, e che proprio il differente modo di vedere cambia radicalmente lo statuto dell’oggetto visto. Per Debray una morale dell’immagine suppone la reciprocità dei punti di vista, poiché un bombardamento assume tutt’altro significato se filmato dall’alto di un bombardiere o dal basso della popolazione che fugge. È lo sguardo, quindi, che postula ciò che si vede. Non sembra casuale che tale questione sia oggi centrale anche nella riflessione teorica sull’analisi del film, e già nel 1986 Francesco Casetti concludeva il suo Dentro lo sguardo (Bompiani), testo chiave rispetto ai processi enunciativi che si instaurano tra film e spettatore, con una speranza: dopo l’era della storia del cinema avrebbe senso iniziare a interrogarsi anche sulla storia delle visioni. Debray parte dal dato di fatto per cui la forza delle immagini cambia con il tempo ma ha sempre avuto il potere di fare agire e reagire chi guarda. Da tale constatazione il libro tenta di interrogare questo potere, rintracciare le sue metamorfosi e i suoi punti di rottura. Metodologicamente però non si vuole proporre una nuova storia dell’arte visiva, poiché oggetto della ricerca sono i codici invisibili del visibile, che definiscono una cultura o un’epoca storica, spesso ingenuamente. Debray ipotizza un percorso dal tracciato rigoroso, ma con l’aria di una passeggiata, talvolta barocca.Strumento di indagine privilegiato è la mediologia, in cui si incrociano la storia dell’arte e delle tecniche, economia e filosofia, sociologia e teologia. In origine l’immagine nasce strettamente connessa alla morte, ma l’immagine arcaica che scaturisce dalle tombe rifiuta il nulla e tenta di prolungare la vita. Viceversa, oggi, si assiste spesso a una rimozione della morte dalla vita sociale, e per Debray non è casuale che ciò dia luogo a immagini meno vive e renda meno vitale di un tempo il bisogno di immagini. Considerato che l’immagine non ha le proprietà semantiche della lingua, e per questo gode di una potenza di trasmissione senza pari, il saggista francese ritiene necessario riavvicinare il materiale e lo spirituale dell’immagine, per andare oltre il divario tra estetica e tecnica, attestato definitivamente dalla filosofia kantiana. Criticando profondamente il concetto di arte, che l’autore legge come nozione tardiva dell’Occidente moderno e non come concetto insito nell’umanità, appare altrettanto aleatorio voler definire una storia dell’arte basata sul concetto di evoluzione lineare delle forme a sua volta basata sul tempo lineare, proponendo invece la nozione di rivoluzione continua che la linea sostituisce la spirale. In questa direzione, vengono identificate tre età dello sguardo, che hanno dato luogo a differenti tipologie di rappresentazione: la scrittura, la stampa, l’audiovisivo. Il tempo di rivoluzione appare sempre più rapido, come testimonia l’ultimo secolo e mezzo, in cui fotografia, cinema, televisione e computer, spostandosi progressivamente dal chimico al digitale, hanno sostituito la produzione manuale di immagini, producendo non solo nuove immagini, ma anche una nuova poetica. Debray definisce "videosfera" l’attuale momento storico, che a suo parere segna la fine della società dello spettacolo e si caratterizza per la progressiva demolizione dei concetti di modello e copia, in un universo digitalizzato in cui il reale sembra sempre più essere l’immagine che se ne produce. In questo senso il cinema appare una tecnica del passato.Debray ammette che, per esporre la trama mentale del XX secolo, bisognerebbe proiettare un Griffith, un Bergman e un Godard, ma teorizza che oggi il visivo inizia dove finisce il cinema, e riconosce come l’ultimo stato dello sguardo ritrova molte proprietà del primo: l’attuale feticismo dello sguardo ha molti più punti in comune con l’era degli idoli che non con quella dell’arte. L’immagine oggi è un’altra dimensione, non un semplice prodotto, e Debray cita Serge Daney, per il quale "il visivo riguarda il nervo ottico, ma non è per questo un’immagine. La condizione sine qua non perché vi sia l’immagine è l’alterità". In tal senso, non sono più sufficienti le categorie dell’estetica, se è vero che non si ama quel che si vede, ma si vede quel che si ama.
scheda di Marangi, M. L'Indice del 1999, n. 10
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