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Che sia un libro lunghissimo si vede, ma la mole non dovrebbe spaventare: ogni pagina, ogni parola, ogni personaggio troppa il suo senso nella storia del libro e nella Storia, quella che è di ognuno di noi.
Un ottimo romanzo, un bravissimo scrittore.La storia si mantiene gradevole ma il punto forte è lo stile, veramente eccezionale secondo me per un'autore così giovane. Il romanzo è pieno di allusioni e metafore che regalano al lettore la straordinaria sensibilità che l'autore riesce a trasmettere nell'illustrare i pensieri e i sentimenti dei propri personaggi e per questa via la loro grande umanità.
Straordinario ed epico affresco dell'Italia risorgimentale, il romanzo di Mari, pur scontando alcune imperfezioni nella macchina narrativa e una qualche ridondanza nella postura espressiva, non solo riesce a fornire una potente rappresentazione di un'epoca, ma anche pittura vivacemente quattro figure indimenticabili: il "semplice" la cui ingenuità riscatta la cattiveria del mondo, la ragazza volitiva impegnata a districarsi dalla tela di ragno di contraddizioni in cui la vita l'ha viluppata, il giovane cittadino che piega lo strumento tecnologico ad una affermazione individuale immersa in uno sfrontato e impudico cinismo e il guerrigliero sospeso tra cosmopolitismo umanitario e bruciare della passione amorosa. Ma c'è molto altro: la grammatica dell'impegno civile, il salto quantico delle transizioni storiche, il vento fresco della giovinezza rigenerante, il viaggio come destino e come irraggiungibilità della meta, l'impulso irrefrenabile alla libertà, il fuoco inestinguibile dell'amore, l'ineluttabilità della guerra, il sequenziarsi di paesaggi rurali e urbani... Romanzo dalla costruzione complessa e ritmata, in cui il dialettico respiro della Storia si fluidifica e si smitizza nell'intreccio di storie individuali, "Troppo umana speranza" scolpisce mirabilmente - a tratti con gli stilemi di un inedito realismo magico a correzione storicistica - il "carattere" di una nazione che nasce grazie allo slancio incoercibile dei suoi ragazzi
Recensioni
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Quanti cuori in tumulto prima dell’Italia unita…
Ecco a voi un maestro dell’affabulazione. Alessandro Mari è un garibaldino al servizio della letteratura: audace, ambizioso, a tratti sconsiderato, generoso come pochi, come le vicende raccontate – l’alba del Risorgimento italiano, molto efficaci le pagine dedicate alle Cinque Giornate di Milano – e i suoi personaggi, giovani cuori in tumulto che non esitano a vivere l’attimo, animati da speranze e passioni fortissime. Un suo personaggio, John John Frye, parlando di Dickens con Leda, una delle eroine del romanzo di Mari, definisce lo scrittore inglese «popolare, melodrammatico fino alla nausea, ma che storie, mia cara. Col coraggio del patetico, senza la scusa del dramma. Tutto ciò che non è Dickens si può lasciare alle filosofie, a qualche stramba e lambiccata scienza umana. Lui, ciò che descrive, te lo lascia dentro agli occhi».
Ecco cosa succede con Troppa umana speranza (749 pagine, 18 euro) di Alessandro Mari, luoghi, figure e storie – un puzzle di quattro vicende, “montate” a ritmo serrato, sul filo del piacere puro di raccontare – restano negli occhi di chi legge. Per il suo documentato e appassionante tomo di debutto, pubblicato da Feltrinelli, questo trentenne lombardo, che nelle videointerviste – rispondendo a domande – può apparire troppo serio e si cimenta spesso in bignami di letteratura mondiale, “arruola” come comparse papa Pio IX, Goffredo Mameli, Giuseppe Verdi, i fratelli Bandiera, Giuseppe Mazzini (qualcosa in più di un comprimario, il cui destino è legato a quello di Leda) e come protagonisti anche Giuseppe Garibaldi e Aninha (Anita), la bella moglie creola che lo segue in Europa.
Più che gli avvenimenti storici però, per Mari contano gli umili, “frullati” dalla storia, a caccia di un futuro, di una ribellione o di una svolta, personaggi inventati che incarnano lo spirito del tempo, un Ottocento che indirettamente parla anche al presente, ai giorni nostri, con un invito nemmeno troppo velato (ai giovani?) a sprigionare le energie e a non smarrire gli entusiasmi nelle difficoltà. Garibaldi (o meglio dom José) è ritratto nelle sue imprese latino-americane dal Brasile all’Uruguay, come la guerra dei Farrapos per la Repubblica e contro l’Impero (in alcuni di questi episodi bellici, paradossalmente, talvolta ci sono cali di tensione narrativa), ma con la mente rivolta all’Italia, dove vuol tornare per unirsi a coloro che vogliono cambiarne i destini, «disposti a morire da martiri per la causa dell’umanità e della patria, affinché, invece di una cloaca di papisti e cortigiani pronti a elemosinare alla tavola di qualunque re, diventi un paese di cui essere fieri»; nelle pagine di Mari l’eroe dei due mondi con i suoi volontari della Legione Italiana calpesterà anche il suolo natio, partecipando all’effimera stagione della Repubblica romana.
Le vicende di Garibaldi negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo scorrono parallelamente a quelle di tre straordinari personaggi di fantasia “fotografati” durante la gioventù, Leda, Lisander e Colombino. Quest’ultimo – insieme all’inseparabile mulo Astolfo – è la figura più riuscita, col candore di un idiota dostoevskijano e picaresche avventure che lo conducono a tu per tu con il papa e con Garibaldi, lontano dal rurale borgo natio di Sacconago (lo stesso dell’autore), dal suo amore contrastato per Vittorina, da don Sante, il sacerdote che lo ha cresciuto come un figlio, dal suo mestiere di “menamerda”, trasportatore di letame benedetto per i contadini. Leda e Lisander non sono da meno: la prima, dopo un’infanzia infelice, giovanissima fugge da un convento romano in cui è reclusa, e studia da spia per insinuarsi, a Londra, nella comunità italiana a Londra che fa capo a Mazzini; il secondo, componente dei Romantici di Sbieco, seduttore di donne ricche o aristocratiche, innamorato della prostituta Chiarella, è un pittore riconvertito alla recentissima arte della callotipia – la fotografia ante-litteram – che trasforma, a Milano, in commercio clandestino di immagini erotiche.
Il quinto protagonista del romanzo è una lingua “risciacquata” nel periodo narrato, lessico e glossario calibrati al diciannovesimo secolo – sebbene il romanzo sia figlio del tempo in cui è stato scritto, con tanto di complessa architettura e fitta tessitura degli eventi – che rendono la scrittura potente e musicale, viva soprattutto, scorrevole come il filo degli eventi narrati, degni di un romanzo d’appendice (con fughe, battaglie, assassinii, delazioni, agnizioni, amori contrastati, cospirazioni, vendette e colpi di scena), che però punta molto più in alto e centra l’obiettivo.
Recensione di Salvatore Lo Iacono
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