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Un ottimo romanzo, un bravissimo scrittore.La storia si mantiene gradevole ma il punto forte è lo stile, veramente eccezionale secondo me per un'autore così giovane. Il romanzo è pieno di allusioni e metafore che regalano al lettore la straordinaria sensibilità che l'autore riesce a trasmettere nell'illustrare i pensieri e i sentimenti dei propri personaggi e per questa via la loro grande umanità.
Straordinario ed epico affresco dell'Italia risorgimentale, il romanzo di Mari, pur scontando alcune imperfezioni nella macchina narrativa e una qualche ridondanza nella postura espressiva, non solo riesce a fornire una potente rappresentazione di un'epoca, ma anche pittura vivacemente quattro figure indimenticabili: il "semplice" la cui ingenuità riscatta la cattiveria del mondo, la ragazza volitiva impegnata a districarsi dalla tela di ragno di contraddizioni in cui la vita l'ha viluppata, il giovane cittadino che piega lo strumento tecnologico ad una affermazione individuale immersa in uno sfrontato e impudico cinismo e il guerrigliero sospeso tra cosmopolitismo umanitario e bruciare della passione amorosa. Ma c'è molto altro: la grammatica dell'impegno civile, il salto quantico delle transizioni storiche, il vento fresco della giovinezza rigenerante, il viaggio come destino e come irraggiungibilità della meta, l'impulso irrefrenabile alla libertà, il fuoco inestinguibile dell'amore, l'ineluttabilità della guerra, il sequenziarsi di paesaggi rurali e urbani... Romanzo dalla costruzione complessa e ritmata, in cui il dialettico respiro della Storia si fluidifica e si smitizza nell'intreccio di storie individuali, "Troppo umana speranza" scolpisce mirabilmente - a tratti con gli stilemi di un inedito realismo magico a correzione storicistica - il "carattere" di una nazione che nasce grazie allo slancio incoercibile dei suoi ragazzi
Il libro di per sé è piuttosto noioso, ma ciò che rende impossibile finirlo è la grande sciatteria con cui è stato editato. C'è una quantità di refusi incalcolabile e questo non aiuta a farsi prendere da una narrazione che, pur essendo molto ingenua e a tratti pomposa, avrebbe pur qualcosa da dare.
Recensioni
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È un libro che si prende in mano con cautela e con un certo sospetto. Cautela per la mole: più di settecento pagine. Sospetto per l'ambientazione risorgimentale, che fa temere un prodotto d'occasione, finalizzato al "centocinquantenario". Altri romanzi sul tema sono usciti in questa imminenza: dalla Storia romantica di Scurati a I traditori di De Cataldo (da cui, parzialmente Noi credevamo, il film di Mario Martone; anzi, De Cataldo definisce acutamente il libro "un ipertesto del film"
); senza dimenticare l'opportuna riproposta dei romanzi risorgimentali di Bianciardi (ricordiamo che Da Quarto a Torino era uscito nel 1960, in tempo per i festeggiamenti del centenario). E nessuno indegno, giova dire. Ma il sospetto rimane, soprattutto se correlato alla giovane età dell'autore e al suo essere, questa, la sua cosiddetta "prima prova".
Cautela e sospetto vengono però deposti già nelle prime pagine, quando entra in scena Colombino: un orfano non molto intelligente, paternamente accudito dal parroco di un paesino lombardo; un "idiota" si potrebbe definirlo, o quantomeno (sempre alla russa) un "innocente". Afflitto da improvvisi mancamenti ed epistassi come reazione a qualunque turbamento o anche solo a pensieri di un minimo impegno, ha come principale incombenza quella di portare in giro per le cascine il concime quasi miracoloso benedetto dal suddetto parroco. "È arrivato il menamerda!" è il grido festoso con cui viene accolto nelle cascine. E Colombino stesso nell'incipit del romanzo, ragiona che "Menar merda non è poi una mala occupazione; peccato, certo, non si fa".
Nei capitoli successivi, si alterneranno con Colombino altri tre personaggi: il milanese Lisander, ritrattista e poi fotografo, il combattente sudamericano José (Giuseppe Garibaldi: ma qui il discorso si fa più complesso, perché in effetti più che di un personaggio si tratta di una coppia di personaggi; Aninha, ovviamente Anita nella nostra mitologia risorgimentale, non è assolutamente presentata come una figura minore, un "accessorio" dell'eroe) e Leda, agente segreto incaricata di spiare Mazzini a Londra. I quattro personaggi (uno praticamente "doppio" come si è detto) si muovono e agiscono a una distanza sempre più ravvicinata.
Colombino, respinto dalla famiglia della sua amata Vittorina, parte dal natio borgo di Sacconago in compagnia del mulo Astolfo (un vero personaggio, letterario come enunciato dal nome, "ma" commovente; soprattutto nella tragica morte) per andare a Roma, dal papa, dal quale crede di poter ottenere una sorta di liberatoria al matrimonio. Durante il viaggio, a Genova, incontra Leda e viene quasi adottato dal padre di Mazzini. Poi incontra Garibaldi e come soldato si dimostra pessimo combattente ma ottimo "soccorritore".
Leda, fuggita dal Rifugio del Buon Pastore ("convento e prigione") di Roma, dove era rinchiusa, viene soccorsa da un misterioso inglese che la istruisce nelle arti della spia e la manda a Londra a tenere sotto controllo Mazzini e gli altri cospiratori là residenti. A Londra entra in familiarità con "Pippo" Mazzini e quando questi parte per l'Italia (è il 1849, la Repubblica Romana) lo segue armata del fido bastone animato per vendicare l'assassinio del suo amante londinese uccidendo i colpevoli. Il primo dei quali viene eliminato a Milano, dove incontra il fotografo Lisander. E posa per lui, oltre a divenirne amante.
Lisander, nato pittore ritrattista, membro della confraternita dei Romantici di Sbieco (molto bella la ricostruzione del milieu romantico-scapigliato milanese), capisce le potenzialità della fotografia e, con i soldi carpiti a una ricca amante, si lancia nel nuovo "business". Dalle ortodosse callotipie presto sviluppa quelle che battezza erotipie o callopornie (foto porno, in sostanza) e inizia a fare fortuna. Fino a quando, in piene Cinque Giornate, si ritrova naturalmente a esserne il fotoreporter.
Garibaldi, inscindibile come si è detto dalla amatissima Anita, per una lunga parte della narrazione si muove negli scenari salgariani del Rio Grande do Sul. E anche quando arriva in Italia si mantiene sempre un po' appartato rispetto agli altri protagonisti del romanzo, quasi a sancire un suo ruolo più alto. Anche se gli incontri e i dialoghi con l'"innocente" Colombino sono schiettamente spassosi.
Una costante solo apparentemente collaterale è l'attenzione dedicata agli odori: quelli della campagna e quelli delle città (Genova: basilico, chinotti, limoni, artemisia), nonché, presentissimi, quelli corporali ("l'odore ramato dell'epistassi"). Un'altra è la regolare felicità delle descrizioni delle scene di sesso (buccia di banana per tanti titolatissimi autori): quello che Mari con felice espressione chiama "l'urto dei pubi" è sempre raccontato con una disinvoltura che non esclude, anzi, la carnalità.
Non tutto è perfetto, s'intende, nella trama (ad esempio l'incontro di Lisander con Verdi è un po' troppo forzato; e la lunga permanenza di Colombino nelle carceri di Genova e Savona è veramente troppo lunga e noiosa); ma in un tal numero di pagine la perfezione e l'armonia "totale" sono pressoché impossibili da raggiungere. E quello che va riconosciuto a Mari è il coraggio di osare; anche di esagerare. In ogni caso va assolutamente segnalato e messo in evidenza come l'autore mantenga sempre ad altissimo livello (ed è ciò che maggiormente qualifica il romanzo) il lavoro sul linguaggio, sul lessico. Dialettalismi, certo. E anche esotismi (ispanismi ovviamente nei capitoli "garibaldini"). Ma soprattutto tutta una serie di non meglio definibili "presenze" efficaci e fantasiose.
Assumiamo come esempi di queste "presenze" tre curiosi verbi con una certa qual sintonia semantica: astiare, boriare, rancorare. Il loro essere dei "denominali", rispettivamente da astio, boria e rancore, ne rende piacevolmente inutile la definizione. Astiare ("Lisander
era cresciuto capace di astiare chiunque per un nonnulla"), già documentato in testi quattrocenteschi (e ben accolto dalla Crusca in ragione dell'autorità di autori come Bernardo Davanzati e il Firenzuola), ritorna dopo un salto di secoli in De Amicis e nei periodici popolari del Risorgimento. Boriare, anzi boriarsi ("Si erano boriati di aver trucidato
") ha una storia altrettanto nobile e antica: da Paolo da Certaldo, pieno Trecento, fino al milanese Berchet e Carducci. Rancorare, poi (nella forma rancurare), vede tra i suoi utilizzatori già Chiaro Davanzati e Giacomo da Lentini. Nonché Dante, nell'Inferno: "Per ch'io là dove vedi son perduto, / e sì vestito, andando, mi rancuro"). E poi continua a vivere con Dossi. Non a caso un lombardo.
Curioso come, a proposito di rancorare, il Fanfani facesse notare come il verbo fosse ancora "bello e fresco nel nostro popolo della campagna". E belli e freschi paiono tutti e tre ancora a noi. Non quindi "presenze" criptiche e iperdotte, archeologiche bizzarrie, ma parole perfettamente leggibili e agilmente interpretabili. Parole da rivitalizzare, da adottare, da rimettere gioiosamente in circolazione.
Luca Terzolo
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