Il mio strumento? L’orchestra!” (Duke Ellington) Nell’immaginario televisivo Bruno Canfora è quel signore con i baffi che sta dietro Mina. Questo il ritratto in bianco e nero che centinaia di ore di repertorio ci hanno restituito dell’ importante compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra. Immagini deliziose, garbate, spesso notevoli dal punto di vista musicale, ma che arrivano dieci-quindici anni dopo l’affermazione del Canfora radiofonico, che probabilmente è quello più vero. La predilezione di Bruno Canfora per l’universo Duke Ellington potrebbe definirsi assoluta. Tutte le volte che il maestro milanese ha affrontato il repertorio del Duca, sia per timbrica che per sonorità, le interpretazioni orchestrali assumevano colori inconsueti, donando a ciascun episodio un’impronta peculiare. Canfora non ha mai proposto un Ellington arbitrario, quanto una rappresentazione swing con una pittoresca definizione vernacolare, armonizzando le tinte, mischiando e impastando per dar vita a combinazioni mai udite. Come molti musicisti di formazione classica che ad un certo punto hanno perso la testa per il jazz, anche Bruno Canfora ama le interpolazioni e quella certa ispirazione timbrica che un repertorio del genere prevede. Basti ascoltare la sua versione di Mood Indigo – originariamente con gli ottoni sordinati senza vibrato e clarinetto nel registro grave – o l’immortale Caravan, che l’orchestra ducale incise nel maggio del 1937. Affascinante, dunque, contemplare la purezza quasi primigenia della versione presente in questo disco. Da notare che il brano, composto dal trombonista dell’orchestra, Juan Tizol, era la dimostrazione della mania ellingtoniana per le correnti latine e caraibiche della musica nera. Canfora sembra essere ben conscio che Caravan è per il jazz ciò che per la musica eurocolta è la Danza araba nello Schiaccianoci di Cajkovskij. Stesso discorso per Prelude To A Kiss – una delle ballad più significative dell’Ellington ante-guerra – anche se la melodia oscillante e le armonie cromatiche del tema erano troppo raffinate per conquistare il consenso del grande pubblico. Echoes of Harlem e Satin doll, temi altrettanto celebri, mettono in risalto gli impasti cari ad ogni autentico ellingtoniano che si rispetti, a cominciare dallo stesso Canfora, a cui capitò di ascoltare dal vivo il Duca nel 1950, a Milano, nel corso del suo primo tour italiano. Fra i solisti in rilievo i trombettisti Cicci Santucci e Nino Culasso, il trombonista Marcello Rosa, il sax soprano Baldo Maestri, il sax tenore Beppe Carrieri. Questa sofisticata riproposta ellingtoniana da parte di Bruno Canfora suggerisce una riflessione: cosa rappresenta Duke Ellington nel jazz di oggi? Non certamente il richiamo ad una nostalgia per una musica che sembra ora proiettata verso qualcosa di diverso, per la quale si dovrà cercare un altro nome che non sia jazz, quanto piuttosto la modernità di un discorso che possiede mille rivoli di rinnovamento e infinite aperture improvvisate.
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