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recensione di Roat, F., L'Indice 1992, n. 4
L'aspirazione di Andrea Canobbio - o almeno quella dell'io narrante di "Traslochi" - è di riuscire a scrivere una storia con estrema naturalezza e semplicità, è il vagheggiamento di una scrittura essenziale, fluida e spontanea come un racconto orale. ("Vorrei raccontare e basta. Non farmi problemi, non ripensare a quello che ho scritto, non giustificarmi di continuo, non chiedere scusa"). E invece, in barba alla dichiarazione d'intenti con cui si apre la storia di Claudio - il racconto di una serie di traslochi -, ben lungi dal fluire, la narrazione si fa intermittente, la scrittura si fa ripensamento.
L'autore sogna un'utopia: evocare una storia che poi cresca e sbocci sua sponte, quasi fosse creatura vivente dotata di esistenza propria. E invece lo scrittore non solo esplicita un continuo elucubrare rispetto a stile, tecnica e struttura del romanzo, ma - genitore ossessivo - interviene su di esso troncandolo e reinventandolo di continuo, ripartendo da un ulteriore trasloco, da un'ennesima storia, la quale dovrebbe risultare più "spontanea" ("Vorrei raccontare e basta, ma qualcosa me lo impedisce"), ma che invece è presto tralasciata per far posto a una coatta riconsiderazione della scrittura medesima, preludio a un ulteriore avvitamento su se stesso del romanzo.
Del resto gli stessi continui traslochi di Claudio, non solo materiali, da un'abitazione all'altra, ma anche affettivi, da un'esperienza amorosa all'altra, esemplificano l'ambivalenza del voler piantare radici vagheggiando una consuetudine amorosa, e insieme del rifuggire da qualsiasi stabilità; ambivalenza che può esser letta come metafora della voglia bifronte di semplicità e di complessità di scrittura. I "Traslochi" di Canobbio testimoniano quanto oggi sia arduo riuscire semplicemente, "ingenuamente", a scrivere storie a "una sola dimensione".
Ma proprio questa ambiguità dell'io narrante nell'essere al contempo fedele e infedele alla sua storia (alla sua casa o alla sua donna) e le molteplici variazioni sul tema del trasloco svelano un'ansietà di controllo sulla scrittura che inibisce l'invocata spontaneità; come se il fatto di lasciarle in sospeso, disarmate e disarmanti nella loro virtualità a divenire altre (o a essere concluse dalla fantasia dei lettori), venisse a innescare una sorta di angoscia da incompiutezza, che solo la continua ripresa, reinvenzione può sedare. Come se ogni versione della storia originaria dovesse, per una sorta di fatalità, venire o cadere in una stretta che la annichila o dissipa in frammenti, i quali daranno origine ad altre variazioni, quasi il romanzo ubbidisse a un'incoercibile entropia narrativa.
Così un narrare puro dalle contaminazioni, che l'interrogarsi intorno alla scrittura comporta, in "Traslochi" non trova luogo, ma a Canobbio forse ciò importa relativamente, tant'è che il suo stesso intessere continue variazioni - le quali costituiscono poi le diverse geometrie con cui sono descrivibili i "Traslochi" - è un'implicita ammissione del bisogno di esprimere narrativamente "qualcosa" che vada oltre il racconto; e ancora: le mutazioni prospettiche che forzano la concezione monolitica del racconto svelano come il desiderio di narrare con la naturalezza con cui si respira sia solo un escamotage narrativo, utilizzato dal finto semplice Canobbio per fabbricare quel gioco di specchi fra romanzo e saggio che è la caleidoscopica scrittura di "Traslochi".
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