Di Cornelio Tacito (circa 55-120 d.C.) si sa poco: proveniente da famiglia provinciale di rango equestre, studia retorica a Roma (forse, come Plinio il Giovane, alla scuola di Quintiliano) e sposa la figlia del generale Giulio Agricola, ai cui ordini Tacito è in Bitinia col grado di tribuno militare. Nell'81 inizia la carriera politica che prosegue fino alla pretura nell'88; vive però in disparte (forse fuori Roma) negli anni più duri del regno di Domiziano. Console nel 97, nel clima di pace sociale istaurato da Nerva e Traiano può dedicarsi all'indagine storica. Negli "Oscar" Mondadori sono già usciti il Dialogo sull'oratoria, la Germania e gli Annali (in due volumi) che, anche se mutili, ripercorrono la storia del principato da Tiberio a Nerone. Esce ora, grazie alle cure solerti di Francesca Nenci, il ricco volume consacrato alle Storie: ampia introduzione, testo latino a fronte, impegnativa e ben calibrata versione, utilissime note di commento. Composte tra il 104 e il 110 d.C., le Storie aprono la stagione maggiore della storiografia tacitiana: in quattordici libri, comprendevano i fatti dal 69 al 96, dall'anno dei tre imperatori (Galba, Otone, Vitellio) alla morte di Domiziano; sono però pervenuti solo i primi quattro libri e ventisei capitoli del quinto, fino alle rivolte giudaica e batavica. Nel proemio si legge che dopo la battaglia di Azio e l'inizio del principato di Augusto "il mantenimento della pace richiese che tutto il potere si concentrasse nelle mani di uno solo" (1, 1). Per quanto legato alle tradizioni dell'antica aristocrazia repubblicana, Tacito si è dovuto convincere che soltanto il principato è in grado di garantire la pace, la fedeltà dell'esercito e delle province, la coesione dell'intera compagine d'un impero così vasto; ma tale convinzione non rasserena l'orizzonte della narrazione che si fa, invece, sempre più cupo. La storia del principato è infatti storia della caduta della libertà politica, del tramonto dell'aristocrazia senatoria (per altro non incolpevole del deterioramento della cosa pubblica), della corruzione dei costumi e del distacco dalle istituzioni; scomparsi i grandi ingegni che hanno reso grande Roma nel passato, tutto ciò che resta è perversa libidine di servile consenso (libido adsentandi, deforme obsequium), invidia calunniatrice e spinte sovversive, odio reciproco tra dominati e dominatori. Decadenza e corruzione sono la materia su cui lo storico è costretto a esercitare la propria attività; ne deriva un potente intreccio tra pessimismo, drammaticità e dissoluzione dei canoni tradizionali che si riflette sul tessuto stilistico della pagina. Con Tacito matura infatti una nuova concezione della prosa d'arte, fatta di giochi chiaroscurali, di coloritura poetica, di andamento spezzato e irregolare che trova nella variatio sintattica l'antidoto alla monotonia espositiva e che fa della brevitas ricca di pregnanze semantiche il modulo principe di avvincenti e sofferti racconti.
Gianfranco Gianotti
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