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Ricorrendo alla letteratura come strumento di indagine antropologica ed etologica, la studiosa americana Susan McHugh in Storia sociale dei cani (ma il titolo originale del libro uscito nel 2004 è un più icastico Dogs) ha costruito un percorso sul cane come prodotto dell'immaginario umano. A dargli avvio è la constatazione che il cane non solo accompagna la storia umana, ma ne è in qualche modo il coautore. Idea che da qualche anno ha trovato piena accoglienza scientifica (si vedano Compagni di specie di Donna Haraway o i libri dello zooantropologo Roberto Marchesini), ma da non applicare riduttivamente soltanto all'ancestrale relazione tra le due specie nella caccia e nella pastorizia. Quanto la sostanzia è semmai la certezza che pensare al cane restituito al suo ruolo di soggetto sia uno dei modi attraverso cui l'umano ha acquisito coscienza di sé, delineando i tratti della propria identità, come dimostrano le sedimentazioni ravvisabili nelle fonti scelte da McHugh.
Ebbene, che cosa mette in relazione testimonianze lontane nel tempo e nello spazio? Pur nella sua natura ancipite (nello stesso tempo aiuto e minaccia), il cane non si sottrae al ruolo di "subalterno", destinato dalla biologia a servire zelantemente la specie umana. Se è "entrato nella civiltà", sottraendosi alla stretta del lupo, è perché l'essere umano ha deciso di educarlo, trasformandolo. A poco serve ribadire che la discendenza del cane dal lupo non sia così certa come ritiene gran parte dell'etologia contemporanea, che delega all'esemplare umano la leadership nella famiglia-branco. Il cane è un ex lupo redento, il "parassita" della nostra specie, costantemente insidiato dagli istinti più sconvenienti e rivoltanti, dalla volubilità alla coprofagia, dall'inaffidabilità alla sessualità esibita.
Merito di McHugh è stato quello di aver spiegato come questa immagine si sia progressivamente saldata alla metafora che si serve del cane per indicare gli elementi deboli della società, dalle donne ai "reietti". È qui che si colloca la spina dorsale della "relazione interspecifica". Il cane è il modo attraverso cui si rappresenta chi deve essere condotto alla civiltà e per questo va tenuto sotto osservazione, seppure a debita distanza dagli equilibrati spazi della ratio umana. Operando in questa dimensione, dalla metà dell'Ottocento, avviene però un capovolgimento del senso della metafora. È stato Baudelaire a ribadire per primo quanto il cane randagio sia assimilabile a quell'ampia frangia di diseredati in cui spiccano i poeti. Qui ha origine lo stilema del bastardo espressione di vitalismo, di gioia carnevalesca, di insubordinazione alle regole (tra i molti esempi, si pensi a Vita da cani, il film di Chaplin in cui il vagabondo fa coppia con la cagnolina Scraps). Un modello "alternativo", che, non a caso, entra in collisione con l'affettata e parallela immagine del cane con pedigree, quintessenza del potere borghese e della sua capacità di controllo del corpo. È ancora oggi così? Forse no. Ai "cani di domani" concederemo altre prospettive, nella convinzione che "non una ma due specie siano diventate contemporaneamente compagne". È giunta l'ora dell'"emancipazione canina"?
Andrea Giardina
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