Stefano Zenni, presidente della Società italiana di musicologia afroamericana, firma una corposa storia del jazz rivolta soprattutto a studenti e appassionati esperti, correlata con il suo precedente lavoro, I segreti del jazz (Stampa Alternativa, 2008), libro di analisi delle forme jazzistiche dotato di un'ampia discografia disponibile in mp3 a cui si rimandano ascolti e analisi. Questo volume di oltre seicento pagine, corredato da una serie di diagrammi e mappe musicali e geografiche originali (ben trentaquattro), in grado di offrire sintesi complesse alla trattazione, integrato da una discografia e una bibliografia aggiornate, si presenta come il più completo testo di storia del jazz disponibile in lingua italiana. Si tratta di un volume molto diverso dalle storie di impronta giornalistica che popolano gli scaffali, prima fra tutte il celeberrimo Jazz di Arrigo Polillo (da quasi quarant'anni il best seller dei libri italiani sul jazz), ultima la monumentale Nuova storia del jazz del critico inglese Alyn Shypton, con le quali questa nuova storia non ha molti punti in comune. L'impostazione scelta dall'autore presenta infatti elementi di novità nella definizione concettuale della materia rispetto a quel tipo di narrazione e, soprattutto, parte da presupposti di carattere musicologico e storico-culturale profondamente diversi, che incidono sulla tipologia dell'articolata narrazione, nella quale si tende a superare la concezione lineare e "progressista" su cui abitualmente si basano le storie del jazz per mantenere vive, almeno in una certa misura, le interrelazioni fra artisti di differenti epoche e concezioni stilistiche. Nel corso della lettura si notano gli intrecci fra luoghi, musicisti e tendenze, affrontati in maniera trasversale e rivelatori di quanto siano correlate poetiche individuali e correnti espressive ritenute lontane tra loro. Per questo motivo i musicisti non scompaiono dopo il periodo artistico che ha visto la loro affermazione e anche la scena europea si incastra nel percorso, per poi essere trattata direttamente verso la fine del volume. Questo tipo di strutturazione riesce a evidenziare le compresenze di artisti e idee, lasciandoci immaginare le influenze reciproche, la selva di ascolti incrociati che hanno generato dinamiche spesso trascurate nella vecchia impostazione storiografica. Nella sua articolazione complessiva, un sostanziale elemento di originalità dello scritto di Zenni risiede nel significativo peso attribuito alla composizione e alla sua incidenza sulle prassi improvvisative, che porta l'autore a soffermarsi sulle conseguenze da essa avute sul linguaggio solistico per smentire alcuni radicati luoghi comuni. Manca però l'analisi del ruolo delle forme quale generatrici di interplay, assenza dovuta a un'impostazione che non considera gli aspetti audiotattili. L'analisi globale degli aspetti compositivi è comunque un fatto rilevante in sé, che offre una visione finalmente più completa del jazz al di là delle fantasticherie romantiche sull'improvvisazione. Un altro aspetto rilevante del lavoro di Zenni risiede nel riequilibrio dei rapporti tra quello che è avvenuto nel jazz prima del bebop e il periodo successivo, che va dalla metà degli anni quaranta sino agli anni settanta, cioè la fase storica sulla quale si soffermano maggiormente le tradizionali storie jazzistiche. Qui, invece, trova spazio adeguato persino la parte dedicata al retaggio africano della musica africana-americana, quasi assente nei racconti generalisti sull'argomento, presa in esame e collegata all'intero universo musicale nero degli Stati Uniti (e non solo). Anzi, la questione Africa si colloca in una posizione preminente, anche se non sempre i giudizi sono del tutto equilibrati. Questo leggero disequilibrio affiora pure nelle considerazioni critiche su alcuni musicisti presi in esame, ma non al punto di farci considerare "sbilanciato" un volume che, invece, cerca di mantenere il tono della narrazione su livelli di confronto corretti e rispettosi anche quando affronta, per smontarli o ridimensionarli, i luoghi comuni della storiografia jazz. Del resto, Zenni è in linea con le storie culturali della materia che sono decisamente più complete ed evolute degli studi strettamente storico-musicali, portando nel racconto una gran quantità di citazioni dirette o indirette, cioè concetti presi da autori regolarmente citati e presenti in bibliografia, che danno visibilità a studi sinora legati alla sola circolazione tra gli studiosi. In questa ampia ricognizione delle epoche jazzistiche più lontane da noi, il volume indaga poi la complessa e articolata scena jazzistica degli anni venti e la cosiddetta era dello swing, collegandole alle dinamiche socioculturali presenti nella società americana e alle connessioni con la danza. Questo è forse l'aspetto di maggior novità presente nel volume di Zenni, capace di risolvere un problema spinoso, da sempre trattato con circospezione dagli storici, critici e studiosi del jazz, scettici o addirittura ostili al fatto di veder ballare il jazz. Considerato nella sua realtà, il rapporto tra jazz e danza, tra ballerini e musicisti, è invece di grande interesse, rivelando delle relazioni interessanti, per non dire sorprendenti, tra aspetti musicali e coreutici, che evidenziano l'importanza e l'influenza ritmica esercitata dai danzatori sui musicisti di jazz, oltre che la loro stretta collaborazione nel periodo swing, cioè fra gli anni trenta e i primi quaranta. La parte più consistente del testo è comunque dedicata a quel quarto di secolo che parte dal secondo dopoguerra, contrassegnato dall'avvento dello stile bebop, per giungere all'inizio degli anni settanta, momento nel quale si dipartono molteplici traiettorie espressive. Nello specifico, la trattazione non opera una revisione, per non dire cancellazione, delle ormai obsolete etichette stilistiche con cui si inquadra il cammino del jazz (free, cool, bebop ecc.), forse anche per mantenere una comunicativa più diretta, ma cerca di evitare i logori luoghi comuni che le accompagnano, offrendo un'immagine d'insieme meno frazionata di quella consueta intorno a una fase storica cruciale, in cui sono emerse molte delle tipologie espressive che hanno influenzato la scena contemporanea. L'ultima parte del volume è invece dedicata agli sviluppi del jazz dagli anni settanta in avanti e sfiora le ultime poetiche anche se, come sostiene giustamente l'autore, una storia è appunto tale e spingersi troppo nella cronaca è una prassi in parte da evitare. Quest'ultimo capitolo del volume è comunque quantitativamente esiguo se paragonato al resto del libro e presenta principalmente quell'approccio globale di cui parla il titolo, cioè una ricognizione sul jazz fuori dagli Stati Uniti (peraltro trattato anche negli altri capitoli con brevi inserti a macchia di leopardo). Certamente si tratta di un'apertura significativa, anche se già presente, in forme ancor più ridotte, in quasi tutti i testi storici di conio recente, ma è ancora quantitativamente insufficiente per la rilevanza musicale dell'ampio periodo cronologico coperto. Proprio la parte europea dovrà diventare un soggetto ampiamente trattato nelle prossime storie del jazz, in quanto il peso assunto, negli ultimi decenni, dalla scena del vecchio continente è ormai di grande rilevanza. In sintesi, il corposo lavoro di Zenni si può considerare un passo in avanti nella nuova linea intrapresa da una quindicina d'anni dalla storiografia jazzistica e sotto questo aspetto si pone come un contributo aggiornato ben diverso dalle storie divulgative di taglio giornalistico. Maurizio Franco
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