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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un libro suggestivo, a metà tra il romanzo melanconico-nostalgico ed il saggio sulla cultura del riso (intesa sia come coltivazione, sia come tradizioni). Belle atmosfere, personaggi variegati (alcuni ben disegnati, altri molto meno), stile scorrevole: leggibile, anche se nulla di eccezionale.
Grande scrittura, periodi estesi, proprietà lessicale e capacità di immaginazione. Il libro è un selezione di quadretti domestici e paesaggi ambientati in risaia e nei territori immediatamente adiacenti. Sullo sfondo, una vicenda neorealista che abbraccia gli anni dal dopoguerra ai giorni nostri. Ma questa è solo pretesto per unire paesaggi, situazioni, fotografie, immagini. Se fosse un quadro sarebbe impressionista. Talvolta greve nell'esposizione di convinzioni personali, l'autrice non si preoccupa di oscurare i suoi personaggi.
Dispersivo, frammentario, personaggi senza anima e senza coscienza...
Recensioni
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L'ultimo romanzo di Laura Bosio si apre con un'immagine capovolta. La narratrice arriva nella tenuta dell'ex suocera, la Torricella, mentre è in atto un trasloco: un enorme armadio a specchi, che la gru sta collocando sul camion, riflette la figura della padrona di casa, ormai novantaquattrenne, a testa in giù, ma ben salda su un'ondeggiante poltrona di legno.
È un incipit che imposta efficacemente il patto narrativo: ai lettori, o forse meglio alle lettrici, è subito chiara la prospettiva rovesciata con cui sono raffigurate le terre d'acqua della Lomellina: il racconto nulla concede alle note del rimpianto nostalgico per un mondo in via di estinzione né ai timbri della rievocazione elegiaca del bel tempo antico. La cultura del riso, fonte di ricordi leggende e immagini suggestive, ha soprattutto offerto il "maggior impulso alla trasformazione dell'ambiente e del territorio". Lo sfondo di operosità dinamica, su cui si svolge la vicenda, è ricco di "infinite differenze" che provocano "incroci scandalosi". Bianca, la vecchia signora, governa incontrastata l'intrico di canali e chiuse ed è al centro della trama variegata degli eventi.
A corroborare l'ottica capovolta sono soprattutto i procedimenti compositivi che sorreggono la progressione d'intreccio. Il tempo del racconto, una settimana esatta, si dilata ad abbracciare le stagioni del passato, più o meno lontano, grazie a un taglio scorciato che, accostando documenti storici e polifonia di voci rammemoranti, elude sia lo sprofondamento regressivo nell'epoca remota delle mondine sia la ciclicità ricorrente dei ritmi stagionali. Soprattutto nelle sequenze iniziali, gli stacchi bruschi imprimono alla scansione narrativa un andamento rapsodico, talvolta spiazzante, che sottolinea le fratture e le soluzioni di continuità.
Non dissimile il trattamento delle coordinate spaziali: al centro svetta la grande casa, piena di oggetti e persone radicate nel presente, cui si affiancano arredi vetusti e figurine evanescenti di vicende ormai tramontate. Da lì, la narratrice spesso si allontana, in cerca di esperienze di vita vissuta e di incontri rivelatori, ma i suoi spostamenti valgono in realtà a corroborare il moto centripeto sotteso all'intera narrazione: tutto riporta alla Torricella. Lei, nata in quella terra d'acqua, da cui era scappata, in opposizione polemica alla famiglia e per rifiuto della provincia sonnolenta, riscopre la vitalità energetica del lavoro in risaia: e non solo abbandona la professione di traduttrice svolta nell'asettica metropoli di Losanna, ma nell'epilogo decide di accogliere l'eredità di Bianca, prendendone il posto.
Il rischio implicito in questa strategia narrativa, avvalorato dalla bandella di copertina, è quello di delineare un universo romanzesco specularmente bilicato fra poli contrapposti: "terra e cielo che si mescolano", la piantina di riso "forte e fragile", campi senza confini ma geometricamente delimitati, vite vere e visioni fantastiche, mondine che "sgobbano con la schiena curva" pronte però "a fare qualche pazzia, a ballare e poi a fare l'amore sui pagliericci", e così via, altalenando fra leggenda e scienza, adesso e allora, desiderio di fuga e ansia di radicamento. A scongiurare la convenzionalità di un reticolo di ossimori consunti è la scelta di eleggere a fulcro strutturale la figura di Bianca. Dalla sua vicenda sprigiona la tensione dinamica del racconto; dalle sue rievocazioni, abilmente dissimulate nel recit, le stagioni dell'acqua acquistano spessore e concretezza; grazie alla sua memoria, stanca ma mai ammaccata o livida, prendono vita le figure più vivide che la Torricella ha accolto e ospitato.
Tutti gli impegni che la donna ha assunto, nella vita pubblica e privata, contraddicono e capovolgono le convenienze del conformismo ottuso: forte dell'eredità paterna (a lei e non ai fratelli maschi è stata lasciata la tenuta), diventa imprenditrice accorta e illuminata; educata sulle battute di caccia, sbeffeggia, nelle pratiche quotidiane, la presunta superiorità virile, magari declinata in chiave fascista. Ancor più spavaldamente antitradizionali i comportamenti affettivi: innamorata di un giornalista dapprima mussoliniano, poi avversario del regime, non solo non lo sposa, ma gli cede, a sprezzo di ogni amor di mamma, il loro figlio appena nato. La voce narrante appartiene appunto alla ragazza che lo ha sposato e da cui ha poi divorziato: al lettore non sfugge affatto per chi simpatizzi, tra il figlio e l'ex nuora, la signora quasi centenaria. Capace di sguardo critico sul mondo, Bianca evita la retorica languida dei sentimenti, conservando il disincanto ironico che salva dai rimpianti acrimoniosi e dalle melensaggini della vecchiaia. Più che gli acciacchi della malattia, a minarne l'energia vitale è il senso di vuoto cui allude il trasloco iniziale: se ne è andata Orientina, l'altra figura femminile che avvalora l'immagine rovesciata su cui si è aperto il romanzo. Suora dai capelli rossi e dalla fervida fede, a guerra conclusa non torna in convento, resta nella tenuta di Bianca a patto di poter lavorare indefessamente: seppur priva di un braccio, è una "vera forza della natura" che irradia allegria, dando prova di autentica generosità caritatevole.
Ma è proprio intorno a Orientina che l'opera conosce una sfasatura strutturale che diluisce, impoverendola, la dinamica narrativa. Il punto di debolezza non sta tanto nella ragione dell'improvvisa scomparsa della donna, fuggita in compagnia di un ex soldato tedesco, diventato suo compagno di vita e ora accusato di omicidio, quanto piuttosto nella torsione prospettica che l'andamento melodrammatico di queste sequenze imprime al dettato. Come se l'autrice, mossa dall'ambizione di allargare e complicare il quadro, perdesse il filo forte della trama e, raddrizzando l'ottica, la banalizzasse, riconducendone lo sviluppo sotto le solite insegne degli intrighi sentimentali. Sul piano macrostrutturale, le testimonianze documentarie sulla cultura del riso, ora esplicite e dotte, appesantiscono il resoconto narrativo, disperdendo la levità delle connessioni lasche cui prima era delegata l'inserzione delle digressioni rammemoranti. Anche il sistema dei rapporti attanziali si riallinea entro la rete risaputa dei diagrammi di coppia. Esemplare l'entrata in scena di Filippo, nipote di Bianca, esperto "risaiolo", di cui la narratrice si innamora, ricambiata, al primo scambio di sguardi. Così che, nella conclusione, la morte annunciata di Bianca è compensata dalla nuova unione, con il passaggio di consegne generazionali, e dal ritrovamento di Orientina, in felice compagnia: il tutto orchestrato sulle note consuete del lirismo evocativo, a suggerire la ricomposizione di un ordine tradizionale in cui "semi" e "germi" gettati nel "terreno congeniale" rifioriranno, sullo sfondo di bagliori e riverberi luminosi.
Meglio, molto meglio, l'immagine iniziale di Bianca a testa giù, sospesa su una poltrona di legno, sola fra pavoni e coppie di caprioli.
Giovanna Rosa
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