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Anno edizione: 2021
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Romanzo impegnativo, non particolarmente scorrevole; tosto come la tematica di cui l'autore si erge ad indispensabile testimone. E' un libro di desolazione, tristezza e miseria, tanta miseria.
Crimea, fine 1920, metà 1921. La Riviera russa, devastata dalla rivoluzione e dalla guerra civile tra bolscevichi occupanti e i Bianchi, è teatro della vendetta dei vincitori, che invadono tutto il territorio, saccheggiando, ammazzando la popolazione e riducendo il territorio in totale carestia, dove muoiono per fame uomini e animali (forse 120-150 mila per la guerra civile e altre migliaia per fame e malattie, un mattatoio umano). Il racconto si snoda nella cittadina di Alušta, fino a poco tempo prima amena località di villeggiatura. La carestia e la desolazione del territorio sono così estese che la gente muore per strada elemosinando di isba in isba un tozzo di pan secco con cui sopravvivere. La situazione è così disperata che gli abitanti raccolgono sacchi di foglie di vite, le triturano e ne fanno una zuppa per cena. Il comunismo di Lenin è definito “setta sanguinaria”. Negli ospedali, dove torme di affamati cercano rifugio, circola il detto: “morire di fame non è una malattia”. La propaganda sovietica, ovvio, è di ben altro tenore: “i lavoratori avranno pane a volontà”. I massacri sono operati per ordine di NKVD alle truppe russe, che spesso catturano i ribelli poi li buttano a mare, vivi, zavorrati. E’ un romanzo denuncia che porta alla ribalta questi atroci episodi, passati sotto silenzio dagli aggressori, che ebbe ampia risonanza nel mondo occidentale. La valenza positiva di questo racconto è l’aperta denuncia di questi eventi di bassa macelleria. Un aspetto, forse meno positivo, è che il romanzo picchia duro su quest’orrenda realtà senza digressioni, senza alleggerimenti del racconto. Dall’inizio alla fine l’orrore cresce a dismisura. Va letto con l’elmetto in testa per evitare di fracassarsela. In alternativa suggerisco Igort (Quaderni Ucraini, Mondadori, 2010) dove i massacri ucraini di Stalin sono descritti con maggior levità: i 5,6 milioni di ucraini nel 1928 sono disegnati a tratto pieno; nel 1934, i 149 mila superstiti sono sfumati, evanescenti.
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