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Qui lo scrittore boemo si interroga attraverso una prosa chiara, sull’arte del romanzo e riesce a trovare parecchi spunti affascinanti. L’uomo ha sempre sognato un mondo in cui il bene e il male siano chiaramente evidenti. Su questo bisogno si fondano le religioni e le ideologie. Il romanzo invece, per il grande scrittore boemo deve sapersi aprire all’imprevisto e deve saper accogliere l’incertezza. Kundera afferma l’immoralità di un romanzo che non riesca a scoprire una porzione di esistenza fino ad allora ignota. “La conoscenza è la sola morale del romanzo.” Dallo smarrimento di Don Chisciotte partì il romanzo, attraverso degli innumerevoli io immaginari alla scoperta del mondo, cercando le incalcolabili verità relative, avendo come sola convinzione la saggezza dell’incertezza.
magistrale! resta incredibile che uno scrittore così colto, intrigante e profondo sia stato trascurato dagli accademici di Svezia, quelli de Nobel!
Per chi ama l'arte del romanzo, questo lavoro di Kundera e' un'eccellente lettura. Si parla di storia della letteratura, certo, ma senza pesantezza e scegliendo punti di vista non convenzionali. Emerge l'intento di inquadrare il romanzo in un contesto sovranazionale, pur privilegiando gli autori dell'europa centrale. Il fine di questo particolare genere letterario e' individuato nella sua capacita' di sollevare il sipario sulla realta', sottraendola alle preinterpretazioni. Le riflessioni intelligenti abbondano: si discute con arguzia ed eleganza di modernismo, prosa e lirismo, estetica, memoria ed oblio. Tra le altre, ho trovato splendide le pagine dedicate ad Anna Karenina.
Recensioni
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“Se infatti la Storia (quella dell’umanità) può avere il cattivo gusto di ripetersi, la storia di un’arte non tollera ripetizioni. L’arte non esiste per registrare, come un grande specchio, tutte le peripezie, le variazioni, le infinite ripetizioni della Storia. L’arte non è un coro che tallona la marcia della Storia. Esiste per creare la propria storia.”
Un grande romanziere talvolta si ferma e riflette: l’elemento su cui fissa il proprio pensiero è proprio l’oggetto della propria arte, il romanzo.
Per questo leggere l’ultimo saggio di Kundera significa saper ugualmente riconoscere la sua opera narrativa e rileggere tutti i romanzi della nostra formazione, le opere immortali che non sempre sappiamo collocare in un unico grande ordito, tessere sparse che richiedono, perché il mosaico prenda forma, strumenti adeguati.
Se al romanzo è propria l’analisi della natura umana e sono i sentimenti semplici (e non quelli eroici della tragedia) ad essere rappresentati, è possibile vedere anche un evolversi del ruolo del lettore: da semplice uditore con Fielding, diventa con Balzac anche spettatore, proprio perché con lui la “verosimiglianza diventa la regola delle regole”. Ogni autore, all’interno della complessa storia del romanzo, opera una specie di addizione o di sottrazione che presuppone sempre un importante scrittore che l’abbia preceduto: dalla concentrazione degli avvenimenti in Dostoevskij all’analisi della banalità quotidiana, “l’immenso e misterioso potere della futilità” in Flaubert. Tutto ciò senza che si pongano barriere nazionali o linguistiche: infatti è impossibile pensare a un grande della narrativa che non abbia in qualche modo tratto spunto da un predecessore con ogni probabilità vissuto a migliaia di chilometri di distanza. Proprio per questo Kundera parla di Weltliteratur in quanto la diversità culturale è il maggior valore dell’Europa (“il massimo di diversità nel minimo spazio”). Esistono due contesti in cui collocare l’opera di un artista: il piccolo, cioè la storia della nazione d’appartenenza, e il grande, cioè la storia sopranazionale della sua arte. Il provincialismo che a lungo ha imperversato è l’incapacità appunto di considerare la cultura nazionale nel “grande contesto”.
Il romanzo, afferma Kundera, ha una “sua specifica Musa”: ha una sua genesi, una sua storia, una sua morale, un suo rapporto con “l’io” dell’autore, un tempo di creazione, e supera, grazie alla traduzione, i confini nazionali (cosa che non avviene facilmente per la poesia).
Il romanzo moderno poi rifiuta di esistere come semplice illustrazione di un’epoca storica, descrizione di una società, si mette invece al servizio di “ciò che solo il romanzo può dire”: sommo esempio di ciò è il Musil di L’uomo senza qualità.
Da discorsi generali poi si passa a ricordi personali: tre mesi dopo l’invasione russa della Cecoslovacchia erano giunti a Praga, su invito dell’Unione degli scrittori (considerata anima della controrivoluzione), Julio Cortázar, Gabriel García Márquez e Carlos Fuentes. Alla loro partenza Kundera legge in bozze la traduzione di Cent’anni di solitudine: un capolavoro di libera immaginazione, una delle più grandi opere di poesia che lui avesse mai conosciuto. La poesia di García Márquez, sottolinea, non ha nulla a che vedere con il lirismo (non parla infatti di sé), non descrive nulla, racconta e basta. Scopre così, anche dal successivo diretto contatto a Parigi con Fuentes che esiste “un ponte argentato” tra Europa centrale e America Latina: “il romanzo è l’ultimo osservatorio da cui si possa abbracciare la vita umana nel suo insieme”, questo dichiara l’argentino Ernesto Sabato, Musil e Broch, cinquant’anni prima, avevano avuto la stessa intuizione.
Se per Flaubert “l’artista deve far credere ai posteri di non avere vissuto” perché la sua biografia non condizioni la lettura dell’opera, questa è comunque “l’esito di un lungo lavoro” su un progetto estetico, compiuto lungo tutta l’esistenza dello scrittore e i concetti estetici hanno inevitabilmente radici esistenziali.
Una notazione di ordine generale che mi ha particolarmente colpito e su cui è interessante riflettere nasce dal racconto di un aneddoto che è ininfluente qui riportare: “la portata esistenziale di un fenomeno sociale si percepisce con la massima intensità non nel momento della sua espansione, ma quando è agli inizi”, e ancora, “mentre la realtà si ripete senza alcuna vergogna, il pensiero, di fronte alla ripetizione della realtà, finisce sempre per tacere.”.
Forse per questo silenzio assordante l’Europa nella quale viviamo “non cerca più la sua identità nello specchio della filosofia e delle arti” e ignora anche in quale specchio si possa, oggi o in futuro, riconoscere.
A cura di Wuz.it
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