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Anno edizione: 1998
Anno edizione: 2014
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Mentre il suo primo saggio, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961; Bompiani, 1981), è stato ancora recentemente definito "il miglior libro che abbia letto sull’arte del romanzo" nientemeno che da Milan Kundera (nei Testamenti traditi, del 1993; Adelphi, 1995
recensioni di Rognoni, F. L'Indice del 1999, n. 03
Ora, si direbbe privilegio degli scrittori veramente grandi (né mi risulta che Girard si sia mai occupato di un "minore") comprendere anche le cose – "nascoste sin dalla fondazione del mondo" – che di solito sono retaggio solo dei cattivi: la dinamica del "desiderio mimetico" (la "menzogna romantica") e i meccanismi dell’assassinio fondatore, del capro espiatorio e dei cicli sacrificali, teorizzati da Girard nei suoi libri degli anni settanta-ottanta, di cui questo massiccio Shakespeare. Il teatro dell’invidia rappresenta un po’ il culmine – oltre a costituire un ritorno all’esegesi del testo letterario e teatrale moderno (un capitolo è dedicato anche allo "Shakespeare di Joyce"), dopo incursioni varie nell’antropologia, nella tragedia greca e nelle Scritture. E questo (il ritorno al testo letterario) con notevoli implicazioni teoriche: prime fra tutte, una debita considerazione delle intenzioni dell’autore, che certa critica moderna avrebbe ignorato, con risultati "disastrosi ai fini della percezione dell’ironia".
È molto difficile, e probabilmente inutile, stabilire se la teoria "mimetica" girardiana sia davvero una via privilegiata per comprendere Shakespeare, o l’opera shakespeariana così poliedrica da valorizzare qualsiasi approccio teorico, quindi a maggior ragione uno di tale forza e intelligenza (e intransigenza). Per sua stessa ammissione, Girard ha ben poco da dire sui "drammi storici", le cosiddette
Histories, che pure costituiscono un buon terzo della produzione di Shakespeare: il che forse mette in luce una delle debolezze – o piuttosto un disinteresse – del sistema di Girard, che è fondamentalmente astorico. Con l’eccezione dell’Otello, sono quasi ignorate anche le grandi tragedie, Macbeth e Re Lear, mentre all’Amleto è dedicato il capitolo forse più farraginoso e prevedibile del libro (che Amleto metta in discussione la nozione stessa di vendetta mi sembra idea molto meno nuova di quanto qui si pretende).
Altri sono i testi privilegiati. La commedia giovanile I due gentiluomini di Verona, e soprattutto il Sogno di una notte di mezza estate, che – nell’affascinante interpretazione girardiana – arriva a mostrare "una visione coerente della genesi del mito". Quindi, attraverso le commedie della maturità, Come vi piace, Molto rumore per nulla e la Dodicesima notte, Girard approda ai "drammi dialettici", fra i quali viene studiato in particolare il Troilo e Cressida, con quel suo personaggio "prototipo del moderno uomo d’affari" che è Pandaro. È poi la volta del Giulio Cesare, che con Bruto porta sulla scena la figura più consapevole dalla pericolosa contiguità fra "sacrificio" e "teatro". La tragedia romana permette di evidenziare la risoluzione sacrificale anche di altri drammi (incluso lo stesso Sogno). Mentre fra i romances dell’ultimo periodo, il posto d’onore non è riservato alla Tempesta – dove Shakespeare "distilla una delicata parodia di se stesso sotto forma di scenette squisite" –, quanto al Racconto d’inverno, l’unica opera in cui "il trionfo dell’Essere è autentico, e non più legato a una morte sacrificale" (ma verrebbe da chiedere a Girard, che dedica le più belle pagine che conosca alla "resurrezione" di Ermione: come disporre, però, della morte del figlioletto Mamillio?).
Dice bene Roberto Calasso, nella Rovina di Kasch (Bompiani, 1989; Adelphi, 1994), che "Girard è uno degli ultimi ‘porcospini’ oggi sopravviventi, secondo la tipologia che Isaiah Berlin ha sottilmente derivato dal verso di Archiloco: ‘La volpe sa molte cose, ma il porcospino sa una sola grande cosa’. La ‘sola grande cosa’ che Girard sa ha un nome: capro espiatorio". Shakespeare, dal canto suo, naturalmente è volpe e porcospino, cioè sa molte "grandi cose", e qualsiasi interpretazione totalizzante, per quanto autorevole – penso, ad esempio, alla "equazione tragica" proposta da Ted Hughes nel visionario Shakespeare and the Goddess of Complete Being (1992) – è destinata a rivelarsi impari al proprio oggetto. Il che, comunque, è lungi dall’invalidarla. Nel caso di Girard in particolare, che teorizza la indifferenza del desiderio, il contagio dell’uguale: in cui, insomma, una ripetitività ai limiti dell’ossessivo è – si potrebbe dire – consustanziale all’argomento, con effetti a lungo andare quasi ipnotici, e offrendo, nel suo complesso, quel genere di gratificazione non esclusivamente intellettuale che di solito è provincia dell’opera letteraria originale, non della critica.
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