Ci sarà un tempo, non lontano (qualche decennio dopo la "Grande Crisi dell'inizio del XXI secolo"), in cui molte famiglie non saranno più in grado sostenere le spese delle scuole ordinarie, tutte a pagamento. Per i figli di questo proletariato urbano, depauperato del diritto allo studio, l'unica possibilità di ricevere una formazione sarà quella di iscriversi a simulacri di scuole, dove il servizio sarà erogato dalle attività commerciali e dalle aziende. In queste scuole, dai nomi tristemente evocativi come "Bricogarden" o scuola della "catena fast food", anche i maestri hanno smarrito il loro nome (e il loro ruolo) e sono definiti "promoter pedagogici", mentre gli studenti devono raggiungere gli obiettivi loro imposti solo al fine di raccogliere dei buoni acquisto. Autore di questo racconto, che sembra collocarsi a metà fra le predizioni di George Orwell e il cupo visionarismo di Ray Bradbury, è Yves Grevet, insegnante e scrittore parigino, che da diversi anni affianca alla sua attività di maestro nella scuola primaria quella di scrittore. In La scuola è finita il giovane protagonista, Albert, è uno dei tanti iscritti alla scuola del Bricogarden. Qui la matematica si impara sulle percentuali di sconto da applicare ai prodotti e le materie di studio sono bricolage e tecniche di giardinaggio. Questo magazzino-scuola è un luogo spersonalizzante, dove i turni di lavoro e le mansioni sono inadatte alla giovane età degli studenti. L'amica di Albert, Lila, frequenta invece la scuola di un fast food e deve "accontentarsi di imparare a cucinare diversi tipi di surgelati, pulire ortaggi transgenici, fare le pulizie". Ma tutti loro, indistintamente, sono studenti di serie B, "figli di barboni", "sporchi poveri" costretti, durante la settimana, a indossare le tute da lavoro, mentre gli altri, i figli dei ricchi, possono frequentare le scuole vere, quelle a pagamento. Le prime pagine del racconto sono caratterizzate da un senso di ineluttabilità nel destino di questi bambini, sino a quando la situazione viene ribaltata: Lisa, infrangendo la legge, passa alla Scuola della Resistenza, dove insegnanti veri, costretti a vivere in clandestinità, ridanno dignità a un mestiere perduto e ai loro studenti. Non manca il tentativo di osteggiare questo gesto di ribellione: l'intervento della polizia, che intende scoprire dove sia finita la fuorilegge. Qui il ritmo della narrazione s'impenna, segnato dai dialoghi fra gli ispettori e Albert. Ma nell'incontro finale dei due protagonisti tutto si ricompone come un puzzle e tutto ritrova una sua dimensione di normalità: nella narrazione della bambina c'è una scuola dove non sono tanto importanti le cose che si imparano, ma "il modo" in cui si imparano. Un modo che scaturisce dal lavoro di gruppo, dalle discussioni, dal confronto e da un reale interesse dei maestri verso quello che dicono i loro allievi. È un messaggio di straordinaria attualità, quello di Grevet, in questi anni in cui la scuola è troppo spesso svalutata, svilita, vilipesa, che sempre più spesso si vorrebbe far soggiacere alle regole dell'aziendalismo svuotandola dei suoi veri contenuti e della sua importanza nel processo di formazione della persona. È un messaggio incoraggiante, da trasmettere agli studenti, che implicitamente esorta a credere ancora in una scuola "laica, gratuita e obbligatoria" come vera risorsa di una società sana. Antonella Faloppa
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