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recensione di Spirito, P., L'Indice 1997, n.10
Come in "Dogana d'amore" (Rizzoli, 1986; cfr. "L'Indice", 1986, n. 10) una trota d'acqua dolce saggiava la vastità del mare e in una fiabesca metamorfosi diventava una sorta di Sirenetta ammaliatrice, così nell'incipit del nuovo racconto di Nico Orengo, "la putina s'affacciò al mare", quasi disorientata di fronte a quello sconfinato orizzonte, per iniziare un ideale salto nel tempo. La "putina", l'acciuga, diventa subito la protagonista di un lungo viaggio nella storia e nei luoghi del passato, tra Liguria, Piemonte e Francia: un viaggio carico di profumi, sapori, colori, suggestioni, storie grandi e piccole. Orengo sembra avere quasi una specie di magnifica ossessione nei confronti dei pesci. Dalla raccolta di poesie "Cartoline di mare" al poemetto "Trota blu" (Genesi, 1988) fino al romanzo "Dogana d'amore", ha sviluppato una sua poetica attenta a cogliere, sempre, la magia della natura, dell'acqua e delle sue creature. E il mare, i pesci si fanno presto metafora della vita e del suo divenire.
Resta dunque fedele a se stesso, Nico Orengo, quando ci racconta la storia delle acciughe, di come furono portate dal mare alle Alpi, sulle vie dei contrabbandieri di sale, sui carri degli acciugai ambulanti della Val Maira, approdando nelle "Langhe, nel Monferrato, nel Saluzzese o nel Vercellese, in Brianza, a Pavia come a Milano", dove "le acciughe piacciono, è cibo povero, per povera gente". E il "salto dell'acciuga", quel percorso dal mare fin sui monti, diventa il punto di partenza, il pretesto, per leggere un territorio e la sua gente.
Inevitabile un parallelo con il "Mediterraneo" (Garzanti, 1991) di Predrag Matvejevic', e quindi, per dovuta analogia, con gli ultimi "Microcosmi" (Garzanti, 1997; cfr. "L'Indice", 1997, n. 5) di Claudio Magris: Orengo racconta in prima persona, coinvolge gli amici più cari, ricorda le sue peregrinazioni a Dronero, nella Val Maira, riferisce le sue indagini sulle tracce delle acciughe, fino al paesino di Moschiéres, dove i saraceni si nascosero per un lungo tempo in cui "furono senza nome, invisibili e nascosti", "per poi diventare con il mestiere di acciugai paese e abitanti".
Storie antichissime si intrecciano a storie più recenti. Come quella di Olga, contrabbandiera di sale, vittima di continua violenza da parte di un doganiere corrotto, "finché non perse la testa e una sera tagliò con un rasoio il belino al 'terrone'". O come il ritratto che Orengo traccia del colonnello Matteo Vinzoni, che aveva "il compito di rilevare e definire confini" tra i Savoia e i genovesi: "viaggiava a dorso di mulo, con una sacca piena di carte e matite colorate. Disegnava mappe, geografie, rilievi del terreno, ciuffi di mortella, rami di castagni, rocce e ciottoli". Allo stesso modo Orengo traccia i limiti, i rilievi, le vie di un mondo scomparso: "Il vecchio gozzo dell'Ernesto, sfondato a prua, si fa sempre più piccolo sulla spiaggia di Punta Benjamin".
Se quel tempo scompare non resta che il racconto, una memoria che lo scrittore affida a una lingua quanto mai ricca, evocativa, densa e saporosa: "Il salto dell'acciuga" è forse una delle opere più elaborate di Orengo sul piano stilistico. A ogni parola, a ogni vocabolo, viene restituito un significato pregnante, di forte valenza. Perciò Orengo fa spesso ricorso al catalogo, ma in modo non ozioso, sempre funzionale alla rappresentazione. Al punto che anche i "frutti del mare", i prodotti dell'"orto acquatico", diventano quasi un canto: "Diceva, in litania: ronco di scoglio e quello giovane, il firagalu. La murena. Castardella, aguglia, surgelina, potassolo, nasello, pastemula, motella, sciburelu, trumbéta de fundu, pesce San Pietro, muggine, cefalo, musino, spigola, carnia nera, pampani, sciarrano, castagnola, sargo, cantarella".
La narrativa di Orengo nasce dalle cose, e il suo sguardo spazia da un particolare a cogliere realtà più vaste. La ricetta della "bagna caoda" (che forse, suggerisce l'autore, non è un piatto di origine piemontese) è il punto d'avvio per una ricognizione nei territori della tradizione, del folklore ma anche della storia e dell'arte: e se nel "1945 quando si pubblica in Torino il "Cuoco"" la bagna caoda "è ancora un piatto troppo plebeo per essere preso in considerazione", ci penserà Ceronetti a magnificare il "piatto principe" con una cantata maccheronica.
Dopo l'algida "prosa nordica" di "L'autunno della signora Waal" (Einaudi, 1995; cfr. "L'Indice", 1996, n. 2), Orengo dà prova di una scrittura quanto mai corposa e ricca, mediterranea verrebbe da dire. Anche per quel velo - sottile, molto sottile - di malinconia che pervade qua e là le pagine del racconto.
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