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L'ultimo volume di Paolo Lanaro mantiene la calibrata misura espressiva a cui ci ha abituato questo riservato, malinconico, riflessivo poeta vicentino. Il suo è uno sguardo discreto (nel senso di non invasivo, di rispettoso verso qualsiasi alterità) rivolto alla realtà in cui siamo immersi; ed è soprattutto un pensiero che si interroga incessantemente sul destino comune a tutti gli essere umani, al trascorrere del tempo, alle storie individuali e alla storia universale che le ingloba. Osservare con stupore e gratitudine, senza alcuna volontà di possesso, il miracolo quotidiano dell'esistenza, vegetale e animale, che si ripropone quotidianamente davanti ai nostri occhi; guardare la neve e la pioggia che scendono incuranti di ogni presenza umana, le case - le scuole - le chiese che invecchiano e si crepano come i volti delle persone; risvegliare ricordi annebbiati, amici persi nell'indifferenza, parenti morti; e riflettere sull'insignificanza del percorso di vita personale rispetto all'ineluttabilità dello scorrere di anni e secoli, all'imperturbabilità di una storia che macina e travolge le vicende minime della gente comune: questo è il compito del poeta. Quello che ci riguarda è cronaca, fatta di gesti ripetitivi e inessenziali; il passato che ci ha illuso e consolato è irrecuperabile, e se un dio esiste probabilmente non risponde all'idea che ci facciamo della provvidenza: "La storia è soltanto l'accumulo / di tante, fugaci, non-storie";"(Ma se poi davvero lassù ci fosse Dio? / E se ciò che per un po' ci ha ammutoliti / fosse stata proprio una sua veloce occhiata?)". La scrittura di Lanaro, musicalmente modulata su tonalità né percussive né cantilenanti, ma obbedienti a una ritmica interna e discreta, non pare rivolgersi alla tradizione letteraria italiana più tipica: semmai recupera gli echi di un Larkin, di uno Hughes, o di uno Strand, di un minimalismo meditativo e introspettivo che la rende particolare e suggestiva.
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