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Raramente ho letto un romanzo più inutilmente ingarbugliato come questo. A parte la punteggiatura, che spesso non aiuta o costringe a rileggere il periodo per capire, la Oggero fa un frutto misto di vicende, personaggi, includendo di tutto e di più per arrivare ad un finale che definire frettoloso e grottesco è fin troppo generoso. Sconsigliato.
All'inizio un po’ difficile da seguire, poi invece mi è piaciuto seguire il filo della storia, ma è finita troppo improbabilmente improvvisamente sdolcinata.
Devo bocciare questo libro della Oggero, che è molto brava nel genere giallo ma nel genere rosa un po' meno. I suoi libri gialli infatti mi piacciono tantissimo, secondo me dovrebbe continuare su quel filone e lasciar perdere le storie d'amore.
Recensioni
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Vincitore del Premio Bancarella 2016.
«No, non mi stava spiando. Era sul suo terrazzo per godersi qualche minuto della bella mattinata e sono comparsa io, tutto lì.»
«Amore da vicino: c’è solo un cortile a separarli; amore da lontano: non una parola è corsa tra loro.»
Silenzi, sguardi, rimpianti, il passato forse troppo presente e un futuro che stenta a decollare, non detti e un mondo di desideri, viscidi ricordi – più subdoli dell’edera infestante – che si abbarbicano nelle menti dei protagonisti, e un’irrefrenabile voglia di amare. Ma, soprattutto, di essere amati. Questi sono i sentimenti che caratterizzano i protagonisti di un romanzo che potrebbe essere già la sceneggiatura, fatta e finita, di una piacevole commedia dal retrogusto acre. Qualche catartica (e dunque piacevole lacrima) vi scivolerà furtiva sulle sue pagine.
La suddivisione dei capitoli in prima battuta spiazzerà il lettore, invitandolo però a spingersi oltre: ogni sezione del libro, intitolata alla protagonista o al protagonista, viene successivamente smembrata in “tessere”, frammenti del mosaico dell’esistenza, atomi di ricordi perduti, pagine sbiadite della memoria. Il racconto non è lineare, ma nebuloso e imprevedibile, perché rispecchia il libero fluire del pensiero, che si dimena si strappa e si ricompone in un piacevole flusso di coscienza.
La storia è ambientata a Torino, ex capitale del regno sabaudo, in cui ancora le ricche scalinate e gli austeri androni dei palazzi altoborghesi si ergono a simulacri di un aureo e malinconico passato. Una cento mille Torino: nella metropoli, infatti, gli antichi fasti non esitano a ibridarsi con storie di famiglie che lì hanno deciso di trasferirsi per dare il la a un nuovo corso della propria esistenza.
Da un lato del cortile c’è Marta, la figlia di un rinomato cardiochirurgo, accanita viaggiatrice e archivista presso la fondazione Garbero-Bessone che ha lo scopo di gestire e conservare la memoria della vita culturale della Regione nella seconda metà del ʽ900; dall’altro c’è Michele, un piacente guaglione «a cui le “femmine” piacciono assai» che per lavoro guida i Frecciarossa, vivendo così sospeso tra una vita sulle rotaie, dove incrocia gli sguardi di un’infinità di sconosciuti, e il suo nuovo appartamento che si affaccia (guarda caso) su un cortile.
Nelle menti dei due protagonisti di tanto in tanto affiorano i ricordi dell’infanzia: lui in testa, oltre ai profumati unguenti e dopobarba custoditi nel retrobottega dal nonno Peppino, ha l’immagine di una ragazzina dai capelli «quasi rossi» che leggeva, o fingeva di leggere, nella casa di fronte al suo balcone; lei con dolore ricorda la madre inesistente e lontana, un amore passionale evaporato troppo in fretta, e suo padre che di tanto in tanto le faceva una carezza o le illuminava le giornate con un sorriso più unico che raro. Entrambi viaggiano, forse più col pensiero che fisicamente, e hanno paura di vivere in modo sereno la propria affettività. Troppe delusioni, troppe sconfitte, troppo poco tempo. Forse, troppo egoismo: c’est la vie.
Sembrerebbe assurdo che due vite così distanti siano già state così vicine. E se i binari delle loro esistenze fossero destinati a entrare in collisione?
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