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Anno edizione: 2021
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Concetto Marchesi, classicista di fama internazionale, portava in sé le tracce dell’idealismo risorgimentale e, insieme, l’energia delle speranze del movimento popolare otto-novecentesco. Luciano Canfora, curatore del volume, ricollega il suo discorso Perché sono comunista, tenuto a Milano nel febbraio del 1956, la conferenza, La persona umana nel comunismo, tenuta a Roma il 16 aprile del 1945, e l’intervento all’VIII Congresso del Pci del 1956. E con la sua introduzione completa il ritratto di un appassionato intellettuale e apre una finestra sulla comprensione dei tempi difficili sospesi tra la fine della guerra e gli anni della ricostruzione.
A cento anni dalla nascita del Partito comunista d’Italia, questo libro risponde a una domanda: perché si era comunisti? Una domanda che è stata oggetto di saggi storici, inchieste, ma anche di film e opere di fantasia. Questa invece è una testimonianza: diretta, viva, appassionata e qualificata. In quanto proviene da un grande latinista, Concetto Marchesi, che era stato anche l’autore del clamoroso appello con cui, nel 1943 da rettore dell’Università di Padova, chiamava gli studenti a insorgere contro il nazifascismo. Perché sono comunista è un’orazione di eleganza classica e chiarezza limpida, il testo di un discorso tenuto a Milano il 5 febbraio del 1956 (e lo storico e classicista Luciano Canfora illumina, nell’Introduzione, tutte le circostanze, gli antecedenti e le influenze storiche e politiche che questa conferenza ebbe). Rilevanti esponenti partigiani lo avevano invitato a parlare; giovani, militanti e simpatizzanti che stavano partecipando alla ricostruzione dell’Italia lo ascoltavano. Accanto al racconto autobiografico, nella memoria dell’anziano e influente studioso, ormai sul finire della vita, si affacciano, sembra con più risalto rispetto ad altri aspetti, le ragioni di ordine spirituale: «Il materialismo storico non ignora che tra le forze che hanno mosso e muovono il mondo sono quelle spirituali e altre che, se sfuggono alla nostra conoscenza, non per questo perdono il loro occulto potere... Sappiamo che oltre la realtà tangibile e sperimentabile c’è l’ignoto e l’inconoscibile c’è la favola e il sogno». Favola, sogno: parole piuttosto inusuali nel discorso politico di partito. Una concezione dell’essere comunisti come religione alternativa dell’uomo, come fede «immanente» che è presente nel secondo intervento (1945) che fin nel titolo preannuncia la sua anomalia, con quell’enfasi sul termine «persona» caratteristico del pensiero cristiano: La persona umana nel Comunismo. Nel dicembre del 1956, poco prima di morire, Concetto Marchesi tenne il suo discorso al Congresso del Pci, l’VIII, che doveva concludere l’«anno terribile». La forma affascinante, la sottigliezza dialettica, perfino una battuta ironica diventata proverbiale, avvolgono contenuti che rispecchiano le ragioni del realismo, della critica alla cosiddetta «democrazia borghese».Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Uomini che ormai non esistono più, come non esiste più ed è oltre ogni tramonto (anche morale) quest'Italia nella quale ci sbracciamo come tristi guitti senza più riferimenti, mentre il serio cerone dell'impegno scola dalle guance mostrando senza scampo un'identità sociale perduta. Librino magnifico, sigillo etico di un uomo che definire preparatissimo, coltissimo, è appena un timido soffio nel tifone della sua grandezza (la sua Storia della letteratura latina è un pilastro insuperato). Qui vibra, come un testamento finissimo, sincero e scandito a fondo nelle vertebre di ogni rigo, la sua statura di uomo, la storia della sua scelta comunista, la sua motivazione, il suo piglio: "Ma i piedi scalzi dovevano correre per chilometri prima di giungere a notte in un tugurio dove era il fumo di un lucignolo e quello di una squallida minestra. Queste cose sapevo e vedevo; e a giugno mi accadeva più volte di scorgere uomini coperti di stracci avviarsi verso la piana desolata con un pezzo di pane nella sacca e una cipolla e la bomboletta di vino inacidito, destinato, secondo il costume, all’uso dei braccianti. Così negli anni della puerizia cresceva in me un rancore sordo verso l’offesa che sentivo mia, che era fatta a me e gravava su di me come una insensata mostruosità, perché insensate e mostruose mi parevano le ragioni addotte a giustificarla. Avevo l’animo dell’oppresso senza averne la rassegnazione". Questo appena un intaglio commosso nel ricordo e nel suggerimento che possiamo lanciare dal nostro sguardo. Se fosse quella un'Italia troppo lontana (e migliore?) rispetto al Moloch nel quale ci smarriamo quest'oggi è difficile dirlo con animo consapevole e analisi tranquilla. Ma è certo che le radici e l'alba della storia sociale e politica di questo Paese passa anche attraverso le mani di questo colosso, lungo le sue pagine supreme, la sua lezione viva, calda, intatta (non senza sottolinearne le contraddizioni che pur la puntellarono). Mancano troppo uomini siffatti.
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