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Il pendolo di Foucault - Umberto Eco - copertina
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9788845204081

Voce della critica


recensione di Corti, M., L'Indice 1988, n.10

Quando a fine settembre accettai l'invito a parlare su "L'Indice" del, secondo romanzo di Umberto Eco, "Il pendolo di Foucault", non immaginavo la pioggia dirotta, anzi inondazione, di recensioni, controversie critiche, inni e dileggi, qualche volta umorali, che avrebbero accompagnato la distribuzione del libro. Certo uno spettacolo sollecitante per chi sia abituato a riflettere sugli aspetti della decodifica dei testi, anche se vagamente inquinato nel caso specifico da fattori estranei, da quelli che Voltaire nel "Dictionnaire Philosophique" chiama le "bornes de l'esprit humain"'. Allora fra queste bornes o limiti dello spirito umano, di cui è necessario far subito piazza pulita per vederci chiaro, c'è la naturale voglia di essere i primi a parlare di una cosa, anche senza conoscerla. Ovviamente i mass media hanno potenziato questa tendenza umana e chi ha a disposizione una pagina a stampa, difficilmente tace: donde la pioggerella settimanale di articoli sul "Pendolo" anteriori o strettamente contemporanei alla sua uscita, basati sul sentito dire o su indiscrezioni o voglie pubblicitarie. E siccome questo, in genere non avviene per la narrativa nostrana, l'operazione ha avuto un duplice esito: di svegliare da un lato l'attenzione delle masse di lettori dei quotidiani, futuri acquirenti del libro, e dall'altro il sospetto e il fastidio di quella minoranza di esseri pensanti abituati a credere che un libro buono ha gambe per camminare prima o poi da sé. Sospetto e fastidio che non hanno certo giovato a un libro che ritengo valido.
Si aggiunga l'altra borne o limite dello spirito umano, che è l'invidia, vizio alquanto selvaggio che tende ad allignare in ciascuno di noi e a lapidare chi vale di più o ha più fortuna. Ogni vincente paga il suo contributo alla malignità, anche se è ripagato in soldi e in onori. Segnale del vizio suddetto la discreta quantità di persone capaci di continuare a discorrere ironicamente di un libro senza averlo letto.
Fatta piazza pulita di questi perversi anche se naturali inconvenienti dello spirito, si può fermare l'attenzione su alcune letture giornalistiche dell'opera di Eco che consentano un discorso in sé coerente, risparmiandoci il riassunto del libro, in. quanto ormai tutti i lettori ne conoscono dalla stampa il contenuto base.
Prima postilla alle letture recensorie: a quale genere letterario appartiene il "Pendolo"? Alcuni critici (Alberto Asor Rosa in "La Repubblica", 4 ottobre; Lorenzo Mondo in "Tutto libri", 15 ottobre) hanno parlato di conte philosophique, mentre Carlo Bo (in "Corriere della sera", 21 ottobre) scrive: "Non un conte philosophique (Mondo), ma un sistema di coincidenze fulminanti che, sommate, avrebbero fatalmente pronunciato la sentenza del non serve a niente". La postilla di Bo sembrerebbe riferirsi piuttosto al sostantivo conte che al suo aggettivo qualificativo. A parer nostro però non va omesso che Casaubon, alter Eco, ci dà l'idea di una mente assai sensibile a ogni fatto culturale e per la quale ogni fatto culturale è stimolo verso multiformi serie di pensieri e immagini. La collaborazione fra pensiero logico-filosofico e fantasia è suggestiva più di ogni altra perché i due mondi sono molto diversi e raramente vanno sotto braccio. Di qui l'originalità del romanzesco da parte di Eco nell'ambito filosofico e di qui anche il disorientamento di qualche lettore non avvezzo a questa animazione inventiva del mondo delle idee e, dunque, a un tipo particolarissimo di conte philosophique. In questo libro è come se le idee stesse si animassero ed Eco le vedesse passare via sul palcoscenico dei secoli, a creare farse o drammi, fra cui addirittura l'impiccagione. Eco è un esperto di medioevo, epoca in cui già vi furono teologi che fondendo il potere filosofico e immaginativo intuirono quello che la scienza matematica avrebbe poi definito la teoria dei mondi possibili, teoria a cui a suo modo ogni artista è sensibilissimo (vedi Borges). Bene quindi per l'etichetta romanzo filosofico, dove il sostantivo ha uso ben più comprensibile in copertina nella prospettiva anche pubblicitaria, come in uguale prospettiva si sopporta una copertina così "inelegante" (Pampaloni, "Il Giornale", 23 ottobre) e dal vagamente pacchiano incontro di colori, ma che in vetrina o sul bancone del libraio si vede.
Merita attenzione nei riguardi del genere letterario il discorso di Antonio Porta ("Corriere della sera", 25 settembre), che collega il "Pendolo" alla serie di riflessioni di Eco sulla natura del romanzo sperimentale dal '62 ("Opera aperta") al '65 (convegno di Palermo con le proposte del romanzo-saggio o del grande schedario alla "Bouvard et Pécuchet"). Assai pertinente nell'articolo di Porta anche il richiamo alla "Storia figurata delle invenzioni", che Eco pubblicò da Bompiani in collaborazione con il fisica G.B. Zorzoli, a cui risale certo il "luogo protagonista", cioè il Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi. A proposito di questa e altre possibili fonti va detto che gli interessi galoppanti di Eco, la rara memoria alla Pico della Mirandola e l'intelligenza vorace, fagocitante e maliziosa fanno sl che indagini o congetture sulle fonti del "Pendolo" possano dare gran gusto a uno studioso come quelle su una Summa medievale: fonti ora di prima mano, ora di seconda, ora di tqrza. E quanto gusto ludico in questa intertestualità interna, esterna, progressiva, regressiva; vien fatto di pensare a Blanchot: "Ce qu'il importe, ce n'est pas de dire, c'est de redire et, dans cette redite, de dire chaque fois encore une première fois".
Torniamo al romanzo filosofico: chi scrive qui ha rinvenuto ("Panorama", 2 ottobre) da un lato l'attenzione di Eco ai corti circuiti che nascono dal cumulo di documentazione (p. 355:"'a voler trovare connessioni se ne trovano sempre, dappertutto e tra tutto, il mondo esplode in una rete, in un vortice di parentele e tutto rimanda a tutto, tutto spiega tutto"), d'altro lato ha visto albergare nel libro tante congetture di ordine metafisico sull'essere che in definitiva è un Nulla dietro il "rimescolio paziente e centenario di tutti i brandelli di verità e di menzogna", messi insieme in era elettronica dal calcolo delle combinazioni possibili di un computer. E al Nulla porta anche il senso del Piano, finzione di un segreto inesistente, falsificazione dell'intelligenza, dunque suo gioco, ma soprattutto metafora del piano inconoscibile dell'universo: una spiegazione razionale del mondo è improbabile, financo inverosimile, siano intellettuali malinconici o fanatici settari a cercarla. Come ha visto già Severino Cesari ("Manifesto", 13 ottobre) il "Pendolo" è "il grande libro sul vuota di questi anni, e lo dichiara, se appena uno sa leggere".
Restando sempre alla questione della natura del libro, del tutto differente l'etichetta che altri vi hanno posto: non racconto filosofico, un feuilleton. Ecco Raffaele Crovi ("Corriere della sera", 25 settembre) considerare l'insieme dei riti diabolici ed esoterici, la messa nera finale, "l'affresco con vicende e personaggi kitsch... un omaggio esplicito al feuilleton di Sue". Orbene, qui si può commentare Crovi e chi la pensa come lui con lo stesso Eco, che in una delle deliziose digressioni del "Pendolo" ci intrattiene proprio sul feuilleton. C'è nella seconda metà del libro (p. 389) un dialogo fra Belbo, che sostiene essere il feuilleton la vera misura della realtà, e lo stupito Casaubon. Per Belbo è errato pensare che solo la grande arte rappresenti personaggi e situazioni tipici, cioè universali: "Il feuilleton finge di scherzare, ma poi il mondo ce lo fa vedere così com'è; o almeno come sarà. Le donne sono più simili a Milady che a Lucia Mondella... e la Storia più simile a quella raccontata da Sue che a quella progettata da Hegel...Quello che è successo davvero è quello che avevano raccontato in anticipo i romanzi d'appendice". Al che però Casaubon, personaggio che nel libro dice io, risponde. "E che è più facile imitare il feuilleton che l'arte. Diventate la Gioconda è un lavoro, diventare Milady segue il nostro naturale penchant alla facilità". A Crovi pare che si possa immaginare un Eco che in questo libro segue il proprio penchant alla facilità?
Fra le recensioni riguardanti questioni di struttura le tre di Asor Rosa, Mondo e Pampaloni (oltre al breve testo mio in "Panorama") si soffermano sulla compresenza nel "Pendolo" di due punti di vista, per non dire due ideologie. La seconda di esse offre una alternativa ai temi romanzati dominanti dell'impostura, della ragione sconfitta, della falsificazione totale: prende quota allora l'universo autentico e positivo di Lia, quello triste da cui parlano le carte di un amico morto, la vita collinare piemontese in cui affondano memorie autobiografiche. Qui Casaubon, trovando il solo senso della vita, scopre insieme che "la verità è brevissima", il resto è commento: e scopre che quando si capisce che le cose stanno così, è sempre troppo tardi. Sono d'accordo coi tre critici che il "Pendolo" è libro superiore al "Nome della rosa", pur se meno organico, proprio in quanto vi si incontra anche un Eco che non è più ludico ma, come dice Mondo, "ha messo in gioco tutto sé stesso" e "con severa malinconia"; o, come ha scritto Pampaloni, nutre "una intenzione poematica o se si vuole poetica". Prospettiva in cui mi pare significativo l'episodio più intenso del libro, la scena del funerale partigiano, evocata sulle carte di Belbo già impiccato al pendolo, allorché il suono della tromba con la lunghissima nota musicale sembra creare un "punto fermo", inesteso, metafisico tra terra e cielo, quasi simbolo di ciò che invano l'uomo cerca e di cui è metafora il pendolo. Senonché qui Eco, conformemente a quanto fece nel "Nome della rosa" e in ossequio a una norma delle retorica classica, pone le pagine più intense e rivelatrici verso la chiusa. E siccome non tutti leggono i grossi libri sino alla fine, qualcuno sembra non essersene accorto.
Se lo schema temporale del "Pendolo" (oggi-ieri, ieri-oggi, inizio-fine, fine-inizio) ebbe a modello nel passaggio dalla fabula all'intreccio il racconto "Sylvie" di Nerval (Eco stesso mi suggerì l'interessante dato a commento di una mia citazione di Nerval come fonte), una gradevole caratteristica della struttura del "Pendolo", proveniente forse da influssi del momento neosperimentale e attiva anche nel "Pianeta azzurro" di Malerba, è la compresenza di tre linee discorsive, progressiva, regressiva e digressiva. Fermiamoci un attimo sulla digressiva: i files del computer Abulafia con gli pseudodiari di Belbo ne sono l'esempio più vistoso (si veda lo spiritosissimo file intestato "Tre donne intorno al cor", pp. 52-3). Ma vi sono anche molte digressioni di natura strettamente discorsiva, scoppiettanti di intelligenza. Per esempio, la pagina sull'incredulo, che non è chi non crede a nulla, ma chi crede a una cosa per volta "e a una seconda solo se in qualche modo discende dalla prima", mentre credulità è credere a due cose che per stare insieme ne richiedono una terza, che però è e rimane occulta (p. 47). Brilla anche la pagina sulla differenza fra gli stupidi e gli imbecilli, ben riconoscibili i secondi, assai insidiosi i primi: "lo stupido ragiona quasi come te, salvo uno scarto infinitesimale. È un maestro di paralogismi. Non c'è salvezza per il redattore editoriale, dovrebbe spendere un'eternità. Si pubblicano molti libri di stupidi perché di primo acchito ci convincono. Il redattore editoriale non è tenuto a riconoscere lo stupido. Non lo fa l'accademia delle scienze, perché dovrebbe farlo l'editoria?" (p. 59).
Il critico che con attenzione si è soffermato sulla inesauribile capacità digressiva di Eco è Giancarlo Ferretti ("L'Unità", 29 settembre): secondo Ferretti, Eco, avendo sempre in mente più modelli di lettore, "organizza qui la sua materia per nuclei, blocchi e stacchi narrativi". Ciò naturalmente ha varie conseguenze sui livelli espressivi e stilistici del libro. Non parleremo però di plurilinguismo, ma di accostamento di registri: a frasi colloquiali e a volte addirittura frasi fatte si affiancano discorsi specialistici o comunque di livello alto; aggiungasi uno sporadico turpiloquio. A differenza di autori che organizzano sul plurilinguismo il loro stile, Eco vi gioca, ma con una certa dose di arguzia e pertinenza; naturalmente il gioco si scalda a contatto con le figure retoriche e quelli che già si chiamano i giochi della lingua. Grande differenza, dunque, dalla colloquialità denotativa del "Nome della rosa". Richiederebbe molto spazio un esame serio degli incontri-scontri di stile nel "Pendolo"; chi conosce bene Eco sa che anche la sua oralità ha forti salti di livello; in più qui l'aspetto ludico del linguaggio deve coesistere con quello evocativo-malinconico, dato che duplice è il messaggio del libro, come prima si è detto. Al di sopra però dell'impasto stilistico, che non è proprio sempre linguisticamente dominato, c'è una forza coesiva nella discorsività di Eco, che è data dalla sua straordinaria volontà di comunicare, dal piacere che la comunicazione gli dà. Il lettore sente questo, che non è certo l'ultimo elemento di attrazione dei libri di Eco, siano teorici o narrativi; essi sono per il lettore di stimolo al pensiero perché una grande carica vitale, oltre che intellettuale, li regge. Borges direbbe di Eco che la verità gli importa meno della confutazione di coloro che la negano.



Fabbrica di l libro (rubrica) Cadioli, A., L'Indice 1988, n.10

Le prime informazioni sull'atteso e ancora misterioso romanzo di Eco sono arrivate in Italia dal "Publishers' Weekly", il 15 luglio: cinque righe informavano i lettori che il dattiloscritto era stato consegnato all'editore e davano brevissimi (ma correttissimi) cenni sulla trama. Tutto quello che è accaduto nei 67 giorni tra il 15 luglio e il 3 ottobre, data di uscita del volume, offre già una cospicua materia di indagine, costituendo la prima fase di quella che è stata definita l"'operazione Pendolo"; la seconda, dopo l'entrata in libreria, è ancora in corso.
Le poche righe del "Publishers' Weekly", riprese il giorno dopo da un trafiletto del "Corriere della sera", sono diventate un servizio su "Panorama" (alla ricerca di ipotetiche e possibili trame), e l'occasione, per numerose testate minori, di parlare di Eco e del suo libro, a proposito e no (l'"Avanti" del 26 luglio presenta, secondo le "indiscrezioni", un romanzo "incentrato sulla figura del fisico francese del secolo scorso"). Ma il "Pendolo di Foucault" diventa un caso di cronaca dopo un lungo servizio del "Corriere del Ticino" (il 30 luglio), nel quale, seppure di seconda mano, si dava un ampio resoconto della trama, provocando reazioni immediate da parte degli interessati, tra i quali i pochi - e segreti - lettori del dattiloscritto: chi ha tradito dando a Lugano le informazioni in anteprima? Per altro sempre sul "Corriere del Ticino", già il 5 agosto Paolo Di Stefano si interroga sulla strategia promozionale messa in opera per il lancio del romanzo, ricorrendo all'ossimoro del "silenzio rumoroso": top secret, ma tutti ne parlano, e Oreste Del Buono, con due esatti mesi d'anticipo sull'uscita in libreria, pubblica sul "Corriere della sera" (il 3 agosto) una recensione vera e propria, denunciando la violazione del patto del silenzio e sentendosi, dunque, libero di intervenire.
Anche da parte dell'editore e dell'autore si grida al tradimento, e si ricorre a una promozione non più fondata sul rigoroso silenzio: Eco rilascia alla "Repubblica" (21 agosto), una intervista "esclusiva", dove dichiara di non aver bisogno di "scandaletti" per far parlare di sé. Ma ormai "Il pendolo" è argomento di tutti, e "L'Espresso" anticipa il primo capitolo. Gian Carlo Ferretti, analizzando sull'"Unità" (27 agosto) "l'Operazione Pendolo" (questo il titolo dell'articolo) invita a non sottovalutare la capacità di Eco "di sovvertire qualsiasi regola", tanto che anche quanto sta accadendo può "far pensare a una sapiente disseminazione di tracce, o comunque a una strategia complessa che prevedeva in partenza la possibilità delle fughe di notizie e che si preparava perciò a servirsene".
Se tra la fine di luglio e i primi giorni di agosto la stampa rincorre tutte le indiscrezioni possibili, nel corso del mese e nelle prime settimane di settembre si infittiscono conferme e notizie: mentre le grandi testate si rivolgono alle fonti dirette presentando ampiamente il romanzo e la vita del suo autore, quelle di provincia sono attivissime, riprendendo informazioni già note, a rassicurare i propri lettori, fin dai titoli, che la grande attesa non verrà delusa. L'imminente "Il pendolo di Foucault", come desiderato fortemente, sarà il romanzo degli anni novanta. Non c'è giornale di provincia che non consolidi o alimenti l'attesa, addirittura riportando l'andamento delle prenotazioni delle copie nelle rispettive città. Ecco una prima riflessione: ai programmi dell'editore si è aggiunto - addirittura in alcuni casi si è sostituito - l'intervento della stampa periferica che soddisfa la curiosità del proprio lettore suscitando altre curiosità e nuove aspettative con una serie di effetti automoltiplicantesi che va ben oltre la volontà del miglior stratega. Per questa via si arriva alla situazione paradossale per cui la pubblicità, ovviamente limitatissima, che il 2 ottobre annunciava il volume ("Da domani in libreria"), è inconsapevolmente presente sulle testate minori sotto forma di titolo. Diversa ovviamente la situazione per i grandi quotidiani e per i settimanali di successo, sui quali si moltiplicano i servizi sul personaggio, con interviste a critici, a scrittori, a vecchi compagni di scuola, e numerose istruzioni per l'uso del romanzo (si tenga sempre presente: non ancora uscito). Con l'avvicinarsi della pubblicazione si cambia scenario: si moltiplicano le recensioni affidate a critici illustri (una per ciascun quotidiano, subito, e magari poco dopo una replica che apre il dibattito: è il caso di "Repubblica", con Asor Rosa, prima, con Citati poi), con schede sulla trama, sulla terminologia, sull'ambientazione, ma continua ad essere molto forte l'interesse per il contesto (molti i commenti sul successo internazionale di Eco alla Fiera di Francoforte o sulle alte vendite registrate in pochi giorni). Lo scrittore, nel frattempo, non rilascia interviste a nessuno (ma la concede a "Famiglia cristiana"), scrive per il "Messaggero" la "mia ricetta", non si fa riprendere dalla televisione (anche in questo caso, suggerisce qualcuno, obbedendo a una strategia promozionale ben studiata); ma non disdegna la più tradizionale firma delle copie in libreria. Infine accompagna i suoi lettori, attraverso le pagine de "L'Espresso", sui luoghi del romanzo.
Si possono a questo punto tentare alcune considerazioni. La strategia promozionale è stata condotta sicuramente con una programmazione particolare, anche se forse senza il rigore auspicato, e con un uso massiccio, ma sapiente, dalla distribuzione delle informazioni. Se c'è un salto di qualità nell'attività promozionale sembra in direzione della quantità piuttosto che della novità: nulla di veramente innovativo, in questo senso, rispetto alle procedure normali. Paradossalmente il lancio del "Pendol ha esaltato i canali tradizionali, quasi il segno delle difficoltà del settore editoriale nel trovare vie nuove di fronte al lancio di un prodotto il cui successo è largamente previsto. Si ha d'altra parte la conferma che il successo clamoroso di un libro può essere estraneo al testo, fondandosi esclusivamente sulla costruzione dell'autore-personaggio. Una costruzione, tuttavia, che parte da lontano, che non riguarda "Il pendolo", non la Bompiani e che, in fondo, nonostante la possibile attivazione da parte di Eco di tutte le sue competenze di studioso, va oltre le stesse programmazioni personali o editoriali.
Il vero caso è piuttosto da ricercarsi sul versante del pubblico e sull'importanza attribuita dai mass media della carta stampata al romanzo come sicuro motivo di attrazione per i propri lettori. Per dare una spiegazione del grande successo, Francesco Alberoni suggerisce il bisogno "di rivelazione", l"'esigenza metafisica, religiosa, che non riesce a diventare manifesta", e della quale il "libro di Eco è il sintomo". E un motivo che ha una sua ragione, ma ci si potrebbe chiedere se quello che è accaduto nei 67 giorni prima dell'uscita del "Pendolo" e nelle settimane successive non risponda, rivelandola definitivamente, alla modificazione del consumo di cultura negli anni ottanta, conseguenza della trasformazione della stampa periodica e quotidiana, da un lato, della nuova programmazione televisiva, dall'altro, il cui prodotto di narrativa più consono è stato "Il nome della rosa". L'Ecofenomeno (così la copertina del "L'Espresso" del 9 ottobre) è il segno più evidente della spettacolarizzazione della cultura: in fondo la testimonianza evidente dell'intreccio sempre più stretto tra informazione e cultura. Occorre, tuttavia, interrogarsi se anche per il romanzo di Eco valga la tendenza all'omogeneizzazione ormai diffusa nei consumi dell'informazione e della cultura, se cioè l'ingresso del "Pendolo" nei servizi della cronaca, prima ancora che in quelli culturali, non significhi una trasformazione dello stesso testo letterario o almeno delle sue modalità di lettura. Imponendo delle scelte, la cronaca, con le sue molte interferenze, muta il rapporto del lettore con la scrittura e forse anche qualcosa di più profondo, le stesse attese estetiche future.


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Umberto Eco

1932, Alessandria

Critico, saggista, scrittore e semiologo di fama internazionale. A ventidue anni si è laureato all'Università di Torino con una tesi sul pensiero estetico di Tommaso d'Aquino. Dopo aver lavorato dal 1954 al 1959 come editore dei programmi culturali della Rai, negli anni Sessanta ha insegnato prima presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Milano, poi presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Firenze. Infine presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Inoltre, ha fatto parte del Gruppo 63, rivelandosi un teorico acuto e brillante.Dal 1959 al 1975 ha lavorato presso la casa editrice Bompiani, come senior editor. Nel 1975 viene nominato professore di Semiotica all'Università di Bologna, dove...

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