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Notturno cileno di Roberto Bolaño è un lungo flusso di coscienza senza capitoli, ne una struttura apparente, in cui un uomo in fin di vita parla al suo io più intimo, a quel giovane invecchiato con cui deve fare i conti da una vita. Sebastián è un prete colto ci racconta dei suoi innumerevoli viaggi nell’Europa per valutare le case di Dio, ma soprattutto degli uomini illustri che ha incontrato Neruda, Jünger e Farewell, e molti altri e ci parla di poesia – la sua prima forma d’amore letteraria – ma anche di morale e di politica – nodo centrale di tutto il romanzo fiume, che è lo scoglio più grande per i lettori che non conoscono molto la storia cilena visti i numerosi rimandi – e del golpe di Pinochet e della responsabilità civile degli intellettuali, atto mancato di tutto il romanzo e dello stesso Bolaño, che sotto le vesti del don Lacroix, nasconde se stesso e tutte le sue colpe, quelle di essere rimasto a guardare, dell’ignavia di non aver agito.
Purtroppo questo scrittore per me risulta illeggibile. Dopo la prima pagina mi sembra di leggere uno scioglilingua e abbandono.
Un prete cileno, colto e raffinato, membro dell'Opus Dei, è in fin di vita e fa i conti con la sua coscienza che, ormai, nel tempo, ha perso la sua innocenza originaria assumendo le sembianze di un "bambino invecchiato", a cui deve rendere conto dei troppi compromessi con il potere che ha accettato nel corso della sua vita. Il peggiore dei quali è il rapporto con Pinochet, a cui ha tenuto lezioni di marxismo. Inoltre, durante il periodo della dittatura, frequentava la villa di Maria Canalis, dove si incontrava con un gruppo di intellettuali e dove era venuto a conoscenza, anzi aveva visto con i suoi occhi, delle torture a cui venivano sottoposti gli oppositori, nel pianterreno della villa. Sebastian Urrutia Lacroix, il prete, aveva taciuto tutto ciò, come avevano pure taciuto gli altri intellettuali. Sebastian dirà: "Ci si abitua anche alla tortura: la routine e l'abitudine sfumano ogni orrore". Bolano mette in evidenza la complicità tra letterati e potere, lo scrittore e anche la Chiesa come cortigiani del potere e anche il timore o paura che ogni forma di ribellione a questa commistione letteratura-potere, possa portare, come successe a Neruda, alla morte.
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