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recensione di Onofri, M., L'Indice 1996, n. 7
Quando ho conosciuto Aurelio Picca nella redazione di "Nuovi Argomenti", egli era già, per me, lo scrittore sconcertante ed euforico, inafferrabile, direi pure sgusciante, de "La schiuma", il libro di racconti uscito da Gremese nel 1992, sul quale si era registrato un quasi generale consenso dei critici che se ne occuparono. Sarebbero venuti poi, a confermare la prima impressione, "I racconti dell'eternità" (Nuova Compagnia, 1995) e il romanzo L'esame di maturità (Giunti, 1995). Non sono uno a cui piaccia confondere i libri di uno scrittore con la sua vita, ma la conoscenza di Picca, nato nel 1957 e insegnante in un istituto tecnico della provincia romana, con quel profilo di masnadiero malapartiano, con quegli eccessi di vitalità mascherata da vitalismo, mi ha fatto meglio capire come questi dati siano l'ancoraggio indispensabile al suo incredibile candore, che gli ha consentito di contemplare da vicino un mondo fin troppo repugnante, scivolandovi sopra con allegria. Certe intemperanze di carne e sangue della sua pagina, posso dirlo subito, nascono da un tormentato rapporto col sublime, a impedire che la lingua, d'estrazione letteratissima, gli s'incieli completamente. Fateci caso: Picca non disdegna certe aperture intensamente liriche, ma si tratta di un lirismo devastato, sempre assoggettato a un qualche martirio.
Ma veniamo a "I mulatti": una voce narrante e due viaggi, che ripetono uno stesso itinerario; un viaggio più antico, con due amici di braveria, e di sconsolata infelicità; uno più recente, in compagnia di una donna ossessionata dall'ovatta, e forse un po' autistica; il paesaggio italiano, la sorprendente luce del cielo, del mare; una meta che è la stessa, quella in cui i due viaggi si sovrappongono e concludono, i diversi personaggi si confondono; un epilogo di vento e salsedine, di profumi, di sensualità, in un delirio quasi panico. Non credo sia necessario aggiungere qualcosa di più circa la trama non trama di questo anti-romanzo: i personaggi di Picca sono privi di spessore psicologico, non hanno destino; è piuttosto il fuoco dentro cui tutto brucia, dal tenero nocciolo di una nostalgia alla dura scorza di un'allucinazione, ad avere un destino, che si attua nella gamma di sottili gradazioni luminose e variazioni di temperatura, gli unici dati della realtà cui lo scrittore sembra prestare la propria attenzione. A Picca, della realtà, non interessa un bel nulla.
Osservate come, sulla pagina, ciò che lo assilla non sia il punto in cui una storia si agglutina e trova il suo baricentro. Lo cattura un dettaglio, un pensiero laterale. Là dove gli parrebbe di poter trovare riposo, il lettore invece sprofonda e si perde. Picca procede per stilettate, trancia le pagine, sperpera i sentimenti, incendia le parole, si lascia tentare dall'incandescenza: "Ascoltatemi: niente di letterario in quello che racconto: cerco soltanto di legare i fili di ciò che è stato": ma vi pare veramente che se, in questo libro, non fosse tutto letteratura, Picca potrebbe beffardamente accampare stemmi come pugnali, bambole, bare, parrucche, che vanno ad arricchire una specie di canagliesco e famigliare trovarobato metafisico? Stemmi, aggiungo, che ci riportano a un esercizio eroicomico della crudeltà, quasi parodico: come quando il cadavere gonfio di Galeazzo Ciano, quello del Duce a Piazzale Loreto, una copia di "Mein Kampf" scagliata nel cielo, sembrano restituirci, come in vilpelle, un'atmosfera che è quella del "Salò" di Pasolini. Stesso discorso si potrebbe fare per la sua iconologia cattolica.
Picca, dunque, non ama la realtà: non s'ingegnerebbe a rivelarne di continuo il risvolto osceno, il riverbero violento. Lo avrete capito: Picca è uno scrittore ammalatosi di titanismo nell'età della parodia. L'unico libro che avrebbe voluto veramente scrivere sono "Le ultime lettere di Jacopo Ortis". Non avendolo potuto fare, perché nato in un secolo sbagliato, si diverte ogni volta a sconciarlo, a smembrarlo: quando il suo Jacopo narrante soffre e si lamenta, Picca ride, e fragorosamente, dei suoi spropositi, delle sue esagerazioni. Bandita finalmente la realtà, lo scrittore può dedicarsi alla sua vocazione che è di natura pittorica: le pagine più belle sono una festa della luce, la più vera vittoria su quel sentimento di morte che lo ossessiona.
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