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Anno edizione: 2019
Anno edizione: 2019
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«L'erede di Ibsen e Beckett, uno dei più grandi scrittori al mondo.» - The New York Times
«La prosa di Fosse è magnetica. Le frasi scorrono al ritmo del respiro. Dovete leggere Jon Fosse.» - Die Zeit
Un bambino viene al mondo; si chiamerà Johannes, sarà un pescatore. Un uomo ormai anziano muore; si chiamava Johannes, era un pescatore. Mattino e sera si estende tra i due estremi della vita, come tra i due estremi del giorno, tra i pensieri di un padre che vede nascere suo figlio e quelli di un vecchio che affronta le cose di ogni giorno, nel suo ultimo giorno, cose sempre identiche, riconoscibili, eppure definitive. Con una lingua vivida e aderente ai dettagli più minuti dell’esistenza e della sua bellezza, percorrendo le domande più importanti di ogni uomo – le più semplici e assolute – Jon Fosse scrive una novella di incredibile potenza poetica, che conferma ancora una volta il talento del più grande scrittore norvegese contemporaneo.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Sulla tastiera di Jon Fosse (layout norvegese) il tasto relativo al punto fermo, nel senso dell'interpunzione, è pressoché intonso*, suppongo... In 152 paginette lo usa in sole tre occasioni; utilizza piuttosto l'accapo e un gran numero di maiuscole. Questi sono elementi di perplessità e di grande distrazione per me. Forse può essere anche presa come l'intenzione di creare un'aura di costante sospensione metafisica nell'intera narrazione rarefatta, surreale e onirica (non priva di luoghi comuni), in cui vita, morte e piani temporali si confondono; oppure si può vedere come una concessione data al lettore, di potersi gestire a piacimento le pause, a seconda di come interpreta il testo. Sì, perché, forse questo testo andrebbe decifrato e interpretato. Va dunque presa come un'esperienza esegetica?... Mah! Quindi, attribuendole io particolare importanza nell'arte del narrare, alla punteggiatura ci tengo e ci gioco parecchio. Risultato: vagolando nella flemmatica ricerca del 'punto', nel fare le pulci alla forma in cui si andava definendo mi sono distratta subito da ciò che nel testo succedeva. Così procedendo, ho perso pure il filo di questo commento, completamente scentrato probabilmente; affrettato, stupido e anche superficiale: inutile?... Ho impiegato più tempo a riflettere su questo libro che se non a leggerlo, e quello che riporto sono le sensazioni che ha prodotto non sintetizzabili in un numero di stelle definito, per cui sospendo il giudizio (anche se qui non è possibile esimersi - chissà perché!?!): ad maiora! *Per pignoleria, e per avvalorare la mia ipotesi della non-consunzione del tasto, aggiungo che nemmeno il punto e virgola (collocato nello stesso spazio) compare nel testo in questione.
«mentre la mamma Marta urla di dolore, verrà alla luce in questo mondo freddo dove sarà solo, separato da Marta, separato da tutti gli altri, sarà sempre solo e poi, quando verrà il momento, quando sarà la sua ora, si dissolverà e si trasformerà in nulla e ritornerà là da dove viene, dal nulla e al nulla, questo è il corso della vita». «Vede le case lassù in cima e lungo la strada e si sente colmare da una sensazione molto forte per via di tutto questo, per l'erica, per tutto quanto, conosce ogni cosa, è il suo posto nel mondo, è suo, tutto quanto, i pendii, le rimesse delle barche, i sassi sulla battigia e ha la sensazione che non rivedrà mai più tutto questo allo stesso modo, ma rimarrà dentro di lui, come ciò che è davvero, come un suono, sì, quasi come un suono dentro di lui, pensa Johannes e si porta le mani agli occhi e li sfrega e vede che ogni cosa riluce, dal cielo laggiù, da ogni parete, da ogni sasso, da ogni barca, tutto scintilla verso di lui e adesso non ci capisce più niente, perché oggi niente è come è sempre stato, deve essere successo qualcosa, ma che cosa?». Breviario sul senso della vita e sulla sua ciclicità, Jon Fosse, premio Nobel della Letteratura, riesce a raccontare l’indicibile, anche se come ogni suo libro non è proprio agevole da seguire. Una poetica della nascita che mi sento di consigliare.
Un romanzo originale e accattivante a cominciare dalla sintassi particolare che rende più semplice tutta la narrazione per finire all’atmosfera sognante che avvolge i personaggi. E’ probabile che non tutti i lettori ne apprezzino lo stile e il contenuto, ma non si può non rimanere affascinati dall’idea della morte come uno scambio continuo tra vita cosciente e stato onirico in cui riemergono i personaggi più cari della vita pregressa.
Recensioni
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IL RIFUGIO DELL'IRCOCERVO - letterature, mondi e animali mitologici
Jon Fosse è uno scrittore norvegese. È un uomo di mezza età con questa lunga coda di cavallo bianca, gli occhiali e lo sguardo da artista scalognato. Ogni anno si fa il suo nome per il Nobel. Ogni anno non lo vince. Da noi non lo conosce nessuno: fatta eccezione per un paio di romanzi usciti anni fa per Fandango e qualche libro di teatro pubblicato da piccoli editori indipendenti, non lo troverete in nessun catalogo, certamente non in quelli dei marchi editoriali più grandi. C’è una ragione. Una ragione c’è sempre.
Adesso La nave di Teseo ha portato in Italia Mattino e sera, edito in lingua originale nel 2000. È un romanzo esilissimo. In copertina c’è un quadro di Peder Balke – norvegese anche lui, romantico –, un paesaggio di mare, una barca di pescatori. Aprendo il libro troviamo subito lo stesso clima sospeso di quell’immagine: non c’è, a vista d’occhio, nemmeno un punto. Le parole vanno a capo, i dialoghi sono incolonnati, la geografia classica delle pagine dei romanzi è rispettata. Ma i punti? I punti non ci sono.
La narrazione si compone visivamente come un flusso, prima ancora che riusciamo e decifrarne il contenuto. Come il mare. Non ci sono punti fermi, tutto scorre liquido, senza direzione. Impossibile leggere questo libro fermandosi e ricominciando in un altro momento: non è pensato per quel tipo di esperienza; vuole che vi immergiate dentro – prendete fiato all’inizio, trattenetelo fino alla fine. Potrà essere sfiancante, ma al mare non interessa. Non si accorge neanche di voi, sta lì e vi tiene in superficie.
Questa è la storia. Johannes nasce. Stacco. Johannes muore. C’è un salto temporale lungo una vita intera, l’esistenza ordinaria di un pescatore del nord, con moglie e figli, che si intuisce tra le righe, senza essere raccontata. L’attenzione si focalizza sui sentimenti di quest’uomo nel momento in cui viene al mondo – i pensieri disarticolati di chi ancora non sa nominare ciò che sente: “e poi l’urlo chiaro e nitido è chiaro e nitido come una stella e poi come un appellativo un significato un vento questo respiro un respiro tranquillo e poi calma calma movimenti tranquilli e il panno morbido e il biancore non così vecchio” –; più tardi, sui sentimenti di quest’uomo nel momento in cui muore: la stupefazione di un nuovo passaggio, dell’intercapedine che c’è, stavolta, tra vita e morte.
Si può dire che parla di questo, Mattino e sera. Della stupefazione, che non è mai adulta, all’inizio come alla fine della vita. Ciò che conta, però, è l’assenza di metafisica: Fosse non ha intenzione di raccontare più di quello che ciascuno di noi già sa. Si limita a registrare i pensieri, come un sismografo, nel modo più fedele possibile; ed è abbastanza impressionate il grado di identificazione che riusciamo a trovare con i percorsi della mente più quotidiani e inconsci di Johannes. La comprensione che abbiamo del suo spaesamento quando afferma, nel giorno della sua morte, che gli oggetti intorno a lui sembrano avere una consistenza diversa.
Se esiste una scrittura introspettiva non può che essere questa: una scrittura che si ferma a raccontare ogni passaggio da una sensazione all’altra, i salti rapsodici che il cervello compie tra i vari imput ricevuti, l’oscillazione senza controllo tra i ricordi e il presente. È, a seconda di come lo si vuole vedere, il modo migliore o il modo peggiore di fare narrativa. Mentre leggiamo quella lunga sequenza in cui Johannes fuma e beve il caffè, osservando per pagine tutti i movimenti insignificanti che fa nella sua piccola cucina e i discorsi sconclusionati con se stesso, può capitare – a me è capitato – di pensare: ma che me ne frega. Questa visione radicale della letteratura, come ogni visione radicale, rischia di farsi impossibile da comprendere per chi non ha tempo o non è disposto a fermarsi lì più del necessario a decifrarla. Normale che Fosse non sia apparso nelle nostre librerie finora: difficile venderlo anche a un pubblico di lettori forti.
Ma una cosa meravigliosa, una cosa indiscutibilmente bella in questo romanzo c’è: ed è il modo in cui Fosse mette in scena la morte. Il presente di Johannes, negli attimi in cui sta lasciando la vita terrena, diventa onnipresenza di tutti i momenti del passato. Il tempo si scompone – è possibile incontrare una ragazza che anni prima ha ignorato la nostra lettera d’amore, è possibile rivedere una moglie morta, i figli da bambini, sé stessi nelle varie sfumature assunte. Tutto questo, stavolta, in modo assolutamente ben strutturato, leggibile. Non c’è un altro romanzo, secondo me, che racconta meglio il flusso immaginario e scomposto dei tempi della vita quando li pensiamo. Vale la pena, almeno per questo, prendere fiato e provare a tuffarsi.
Pierpaolo Moscatello
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