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Anno edizione: 2021
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La confessione inedita della figlia del boss che ha fatto scoprire il covo di Provenzano ed è stato poi abbandonato dalle istituzioni. Una testimonianza toccante che accende di nuovo i riflettori su una verità che imbarazza, tuttora oggetto del processo sulla trattativa Stato-mafia.
«Molti attentati addebitati e commessi da Cosa nostra sono stati commissionati dallo Stato... Vedrà, comandante, quante ce ne faranno passare.» Luigi Ilardo a Michele Riccio, colonnello dei carabinieri, prima di essere ucciso. «Hanno ucciso e seppellito lui, ma non noi e soprattutto non me... So che la mia liberazione avverrà quando emergerà la verità della storia, più grande di lui, nella quale mio padre si è trovato coinvolto.» Questa volta a parlare è la figlia, nata nel 1980. Quando suo padre, Luigi Ilardo, morì, aveva appena sedici anni. Fu lei a scendere in strada e a raccoglierlo tra le sue braccia la sera del 10 maggio 1996, poco prima che scattasse il piano di protezione a tutela sua e dei famigliari. Il racconto di Luana ci commuove. Oltre a denunciare la drammaticità della morte del padre, ci fa entrare dentro la mentalità e la vita quotidiana di una famiglia mafiosa, imparentata con i Madonia e a contatto con tutti i più importanti boss, compreso Provenzano. La sua testimonianza, raccolta e narrata da Anna Vinci, è puntuale e avvincente proprio perché esprime l'amore di una figlia che a poco a poco si rende conto di quanto la sua vita sia stravolta, prima dalla carcerazione del padre, poi dalle continue fughe, sparizioni, paure. È incredibile come la grande storia di questo paese passi da qui, attraverso questa vicenda famigliare che ci è restituita in tutta la sua concretezza. In appendice alcune dichiarazioni e lettere private di Ilardo e i documenti della sua collaborazione, oltre a un dialogo tra la scrittrice e Giorgio Bongiovanni, direttore di "Antimafia Duemila". Luigi Ilardo: per la mafia un "traditore", per lo Stato un informatore che ha rilasciato per anni "dichiarazioni spontanee" nell'ambito di quello che le forze dell'ordine definiscono "un rapporto confidenziale". Dopo undici anni di dura detenzione e rari permessi, Ilardo decide di cominciare un percorso di collaborazione, e di "redenzione", come nessuno mai aveva ancora fatto. Sarà lui a portare i carabinieri a scoprire il covo di Provenzano, che sarà arrestato solo molto tempo dopo. Perché? Una fuga di notizie dalla Procura di Caltanissetta, come attestano le indagini giudiziarie, sarà la causa della sua morte, avvenuta il 10 maggio 1996. Prefazione di Michele Riccio.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Molti hanno dato poche stelle di recensione al libro ma oltre alle 4 mie precedenti, ne do una 5, in quanto è necessario rendersi conto che dal testo è evinta una chiave di lettura determinata. Ilardo come tutti i pentiti e non solo informatori, determinanti nella cattura di boss latitanti, è stato l'unico vero che avesse voluto non solo dissociarsi dalla mafia ma fidarsi di uno Stato che avrebbe dovuto sin dall'inizio proteggerlo, ed invece lo ha lasciato in balia della malvagità dei suoi 'affiliati' in divisa. Per questo il titolo del libro Omicidio di Stato è la macchia di sangue davvero indelebile insieme ad altri del tessuto sociale italiano.
Questo libro è scritto appassionatamente da una giornalista scrittrice pratica in storie di questo genere, dopo il libro su Mutolo, questo su Ilardo a mio avviso raccontata dalla figlia vuole essere un modo per rivendicare il ruolo che Ilardo ebbe da infiltrato nelle indicazioni delle giuste direttive informative che avrebbero aiutato lo Stato ad acciuffare Provenzano. Ma la parte del leone questa volta è stata fatta dallo Stato stesso, da Riccio, Mori, Subranni che lo tradirono facendolo uccidere, dopo essersi serviti delle mansioni da informatore. Se guardiamo ad altre realtà, lo Stato prima se ne serve e poi isola vendendo la vittima inconsapevole al suo destino, guarda caso la morte per mano di chi riveste competenze nella storia.
Il tema è purtroppo noto: la confusione (talvolta strumentalizzata) dei rapporti tra mafia, politica, apparati vari, massoneria, etc. La spiegazione sta nei giochi di potere o semplicemente nei profitti che potrebbero derivarne? Probabilmente si tratta di un mix di cose che vengono, non a caso, abilmente "imbrogliate". La storia è raccontata attraverso il vissuto (dagli anni ‘80) di Luana, figlia di un boss catanese. Emergono anche spaccati di vita e "abitudini" siciliane: la ospitalità e l’accoglienza (mentre sua mamma era bellunese), l’obbedienza alla famiglia, le usanze e la mentalità in un linguaggio complicato e stratificato, dai molti significati, soprattutto non verbali. Nel silenzio come forma suprema. E’ vero come dice Luana che “solo chi nasce, cresce e abita in questa terra che amiamo visceralmente, nella nostra Sicilia, può comprendere appieno...” e anche che la vita di un mafioso ha come esito il “mangi galera o mangi terra”. Storie tra le vie, i bar, le discoteche negli anni d’oro di Catania che forse continuano, e di altre località isolane. Lo sfoggio di ricchezze e dei figli come "trofei", ad es. nei battesimi tra regali sfarzosi e ricevimenti principeschi. L’educazione e la signorilità sono sempre apprezzati dai boss. Ma non il tradimento. Dopo l’uccisione del padre che con le sue confessioni fa arrestare circa cinquanta persone, tra le quali dei parenti, Luana cerca di ricostruire (perlopiù burocraticamente..) le vicende e le persone, per capire e per esorcizzare il cocente dolore,forse per sublimarlo nel papà che... “sapeva troppo. Era un ingombro”. E’ stato ammazzato "grazie" ad una fuga di notizie dalla Procura di Caltanissetta? Di sicuro sono stati “persi” gli appunti informali dell’incontro che egli ebbe, poco prima di essere ucciso, con Caselli, Tibera e Principato nel comando dei Ros a Roma...Quindi i "buoni" sono stati peggiori dei "cattivi"? Forse ha ragione Giorgio Bongiovanni: “La verità non sarà mai conosciuta fino in fondo”.
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