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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2022
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«Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, contrario alle norme della vita, causò un enorme turbamento.»
Un paese senza nome, 31 dicembre, scocca la mezzanotte. E arriva l'eternità, nella forma più semplice e quindi più inaspettata: nessuno muore più. La gioia è grande, la massima angoscia dell'umanità sembra sgominata per sempre. Ma non è tutto così semplice: chi sulla morte faceva affari per esempio perde la sua fonte di reddito. E cosa ne sarà della chiesa, ora che non c'è più uno spauracchio e non serve più nessuna resurrezione? I problemi, come si vede, sono tanti e complessi. Ma la morte, con fattezze di donna, segue i suoi imprendibili ragionamenti: dopo sette mesi annuncia, con una lettera scritta a mano, affidata a una busta viola e diretta ai media, che sta per riprendere il suo usuale lavoro, fedele all'impegno di rinnovamento dell'umanità che la vede da sempre protagonista. Da lì in poi le lettere viola partono con cadenza regolare e raggiungono i loro sfortunati (o fortunati?) destinatari, che tornano a morire come si conviene. Ma un violoncellista, dopo che la lettera a lui indirizzata è stata rinviata al mittente per tre volte, costringe la morte a bussare alla sua porta per consegnarla di persona.
Indice
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Primo libro che leggo di Saramago incuriosita dal tema trattato, morte e immortalità. Inizialmente sconcertata dallo stile di scrittura dell'autore sono poi riuscita, nel proseguio della lettura, a godermi appieno il libro. A me è piaciuto
E molto interessante lo cinsiglio vivamente
Non il solito romanzo, interessante
Recensioni
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È la nostra più grande paura e la nostra più grande certezza, eppure si firma “morte”, con la emme minuscola, perché anche lei deve rispettare una gerarchia. Sa di non essere il peggiore dei mali, la fine di tutto, il buio assoluto, così come sa che la sua falce non ha il potere né il dovere di agire su ogni specie.
A ciascuno il proprio epilogo, a ciascuno la propria morte.
Saramago, dopo Cecità e Saggio sulla lucidità, torna con un altro curioso e grottesco esperimento mentale, in un paese senza nome che, semplicemente, smette di morire. La gioia è breve, la conquista effimera: si continua a soffrire, si continua a invecchiare, si continua a nascere in uno spazio che, all'improvviso, appare troppo stretto, troppo poco pronto a sostenere l'immortalità e l'impatto economico, sociale, filosofico che questa ha sugli uomini e le loro anime. Non esulta chi è costretto ad affidarsi alla maphia per oltrepassare il confine ed emettere l'ultimo respiro, chi si ritrova sospeso tra la vita e l'aldilà, in un limbo d'interminabile agonia, chi deve gestire l'emergenza e impedire il collasso. La sconfitta della nera mietitrice assume le fattezze di una crudele condanna, per i deboli e per i potenti, per i giovani e per gli anziani, per i giusti e per i rei, mentre l'autore ci contagia con un'idea: e se la nostra più grande paura fosse la nostra più grande necessità? Se il problema non fosse racchiuso nella sua esistenza, ma nella sua crudele imprevedibilità?
La morte, con la emme minuscola, ha, perciò, una nuova soluzione, quella di annunciarsi con garbo, una settimana prima di sopraggiungere, attraverso una lettera viola che non si può restituire, buttare o ignorare, un segnale per sistemare gli affari in sospeso, fare testamento, salutare gli affetti, prepararsi alla dipartita. Eppure, la turbolenta relazione tra noi e lei non si appiana, anzi, s'inasprisce. Gli uomini non vogliono sapere, non vogliono non sapere, non vogliono morire, non vogliono non morire. Cosa vogliono?
Nel momento in cui i lettori cominciano a porsi il problema, una lettera, un'unica lettera, torna al mittente, una, due, tre, quattro volte, e un violoncellista sfida, inconsapevole, lo scheletro che, protetto dal sudario d'ordinanza, si è reinventato postino. Piccola e fallibile, la scaltra protagonista inizia a starci simpatica; avvolta nella pelle, nei vestiti, nel profumo, nella vulnerabilità di una donna, che osserva, che conosce, che si confronta col rimorso e con l'amore, ci conquista.
L'esperimento termina così com'era cominciato, con una pennellata di assurdo e il Caos alle porte. La morte si perde tra le proprie vittime, diventando una di esse, e torna a latitare; le leggi della natura si sovvertono e risovvertono per scandire, ironicamente, favolisticamernte, senza ambire alla verosimiglianza, una critica contro la società moderna, un commento beffardo alla schizofrenia dei nostri desideri, tesi verso un'eternità che nulla può rivelarsi se non la scoperta della nostra nuda fragilità.
Recensione di Angelica Cremascoli
A cura del Master in Editoria dell’Università degli Studi di Milano in collaborazione con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori
«Dove si andrebbe a finire se tutti passassimo a vivere eternamente, sì, dove si andrebbe a finire, domanderà l’accusa usando tutta la sua più bassa retorica, e la difesa, superfluo aggiungerlo, non ha avuto la presenza di spirito per trovare una risposta all’altezza della situazione, neanche lei aveva la minima idea di dove si sarebbe andati a finire.»
Potrebbe forse definirsi un romanzo utopico-filosofico questo ultimo di Saramago, anche se l’autore probabilmente non sarebbe d’accordo. È un viaggio immaginario, alla maniera di Swift, in cui un inesistente Gulliver, la voce narrante, Saramago stesso, racconta da testimone privilegiato un luogo senza tempo e senza coordinate geografiche in cui accade un evento straordinario: l’improvvisa latitanza della morte. Un’utopia che si trasforma in dramma e che, attraverso i vari rivoli della narrazione, propone tragedie singole e collettive legate a un unico tema: l’immortalità.
Un’immortalità che non limita la vecchiaia, che non impedisce la malattia, l’incidente, il coma, la sofferenza, l’handicap, il dolore fisico e morale. Un’immortalità destinata a creare un universo di vittime sempre più anziane e sofferenti, un esercito di incontinenti, un popolo di abitatori di case di riposo (‘le dimore del felice occaso’) e ospedali, in numero sempre crescente rispetto ai giovani che possono accudirli, ormai unica professione immaginabile per il futuro. Di fronte a questa situazione, come reagirà la popolazione sapendo che è sufficiente attraversare il confine per ritrovare una giusta e buona e logica possibilità di morte? Cosa decideranno i parenti dei malati terminali e quali saranno le prese di posizione del governo e della polizia e le valutazioni di tipo etico e religioso, considerando che, se da un lato la ricerca cosciente della morte può considerarsi suicidio o peggio omicidio, senza morte non c’è resurrezione e dunque non c’è Chiesa?
Da tempo Saramago non identifica più i suoi paesi con un nome o un preciso luogo geografico, così come non attribuisce più un nome ai suoi personaggi e i suoi romanzi hanno sempre più assunto un ruolo di riflessione profonda e talora sarcastica sulla nostra condizione sociale, politica e umana, uscendo dal particolare per entrare nell’universale. Per capire il senso di questa scelta sarebbe importante leggere in questa chiave Tutti i nomi, grande anticipazione anche del tema della labile, quasi burocratica linea di confine tra la vita e la morte, in un’ottica senza possibilità di salvezza, sia fisica che metafisica, ma anche Saggio sulla lucidità, capolavoro di narrativa politica: non a caso lo scrittore portoghese si definisce “ormonalmente comunista”.
Poi, all’improvviso, in questo Le intermittenze della morte il racconto lascia il piano collettivo per passare nuovamente a quello individuale, quando la morte si rifà viva, dopo i suoi sette mesi di latitanza, tornando a colpire le sue vittime e facendosi precedere di qualche giorno da una lettera di colore viola che annuncia l’evento, che torna a essere un fatto unico e personale senza via d’uscita. Senonché anche la morte, detentrice assoluta del potere (“io sono la morte, il resto è nulla”), può incappare in un imprevisto, che qui prende le sembianze di un violoncellista: un incidente dai risvolti imponderabili. La morte si fa vulnerabile e donna e, con la complicità di un semplice brano musicale, un brevissimo studio di Chopin, opera 25, numero 9 in sol bemolle maggiore della durata di soli cinquantotto secondi, compie un’azione che credeva impossibile portandoci a un finale bellissimo e travolgente e alla frase ultima, che è anche la prima, e che testimonia come tutto si ripeta senza scampo.
Più che sulla paura della morte è sul terrore della vecchiaia che si incentra il romanzo, terrore che tormenta la nostra società occidentale manifestandosi in vari modi: dalla spasmodica ricerca di un’apparente giovinezza, anche attraverso l’uso di strumenti di tortura come la chirurgia estetica, all’allontanamento degli anziani in luoghi appartati e “invisibili” come, appunto, ‘le dimore del felice occaso’: lontani dagli occhi, dal cuore e dalla memoria. Questo non è dunque un libro sulla morte, ma sulla vita perché non esisterebbe l’una senza l’altra, perché ogni vita terrena è destinata a una fine, ne ha bisogno per la sua stessa esistenza; è così anche per i patriarchi vegetali ai quali sono concessi mille ma non più mille anni.
“La morte è logica, è naturale: ci appartiene. Viviamo per morire e non vivremmo se non morissimo. L’eternità paradossalmente sarebbe infinitamente peggiore”.
A cura di Wuz.it
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