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Anno edizione: 2019
Anno edizione: 2019
È possibile rianimare o costruire una nuova democrazia culturale per l'Italia?
Una società che dileggia la competenza, che sostiene che chiunque può fare qualsiasi cosa, che sostiene l'equivalenza di tutti a prescindere dalle conoscenze, dallo studio, dalla performatività, finanche dal talento, è una società statica, abulica, bloccata su se stessa, incapace di trasformarsi.
Gianni Canova tocca uno dei nervi scoperti del dibattito culturale in Italia, un paese che sembra condannato a diventare nazione di analfabeti e populisti. Secondo Canova l'Italia del XXI secolo è diventata culturalmente anoressica: dopo il neorealismo dell'immediato dopoguerra sono mancati riferimenti riconosciuti a livello internazionale e un consumo di prodotti culturali degno di un paese sviluppato. Mentre l'intellettuale progressista o elitista si crogiola tra i propri idoli, l'unica vera rivoluzione culturale pare essere rimasta quella del cinema. È possibile rianimare o costruire una nuova democrazia culturale per il Belpaese?
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la precisazione del lettore Pecci lascia allibiti. sto leggendo il volume e non sono ancora arrivato alle parti citate da Pecci. . comunque grazie per la precisazione.
Peccato che in questo volume l'autore, Gianni Canova, finisce per commettere un grave scambio di persona, un autore con un altro in una serie di brevi citazioni tratte da un libro contro le mostre d'arte, di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione ("Contro le mostre", Einaudi, Torino 2017). Canova si scaglia verso una presunta visione delle mostre d'arte, a suo giudizio elitaria e antidemocratica, che sarebbe presente nel libro di Montanari e Trione quasi fossero i paladini di una cultura critpica, difficile, elitaria. In realtà Canova finisce per confondere il senso del libro da parte di Montanari e Trione contro le mostre che, in realtà, si scagliava e si scaglia, invece, contro la banalizzazione dei saperi storico-artistici con mostre che non apportano nuovi progressi negli studi storico-artistici e con abbassamento dei livelli dei saperi. Ma non certamente una visione antidemocratica dell'arte. E ben sappiamo che Montanari, come Settis e Trione, ha sempre difeso la scientificità delle mostre d'arte attraverso una visione profondamente democratica e rigorosa dell'arte e della storia dell'arte, legata al dettato della nostra Costituzione della Repubblica, Artt. 9, 33, 21 ecc... Canova quando parla (in un paragrafo del proprio volume) di "Industria culturale", invece, attacca frontalmente Montanari con diverse citazioni dal primo capitolo dell'einaudiano volumetto, ma non si accorge che invece il primo capitolo è stato scritto da Vincenzo Trione e quindi attacca, non sapendo di farlo, proprio Trione scambiandolo per Montanari (Cfr. G. Canova, "Ignorantocrazia..., pp. 65-69). Un attacco che ritengo del tutto superficiale, gratuito e fuori luogo.
Recensioni
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Gianni Canova è un intellettuale che io ho sempre apprezzato: lo ascolto volentieri, mi piace ciò che dice e come lo dice, in un momento storico nel quale alla forma non viene mai dato il giusto valore e spazio. La forma è bella, anzi: la forma è bellezza.
Ignorantocrazia è l’ultimo saggio di Canova uscito per Bompiani. Fatta eccezione per l’accorta e accorata introduzione sullo stato pietoso dell’analfabetismo funzionale (definizione molto in voga ultimamente) in cui versa il nostro Paese, il testo è una raccolta di saggi – molto accademici – su quattro arti: il fumetto, il romanzo, la televisione e il cinema. Ognuna di queste quattro arti viene analizzata attraverso l’esempio di un’opera ai tempi considerata “pop”. Tex, i noir di Giorgio Scerbanenco, la serie La Piovra e i film di Ettore Scola (il quale non ho mai considerato realmente pop, ma tant’è).
Nella sua introduzione, Canova si scaglia contro lo stesso sistema universitario del quale fa parte per portare alla luce la mancanza di alfabetizzazione dei giovani: una mancanza di capacità di riconoscere la struttura, la simbologia e la grammatica basilare di qualsiasi linguaggio (non solo quello verbale, ma anche cinematografico, televisivo, romanzesco e artistico in genere).
Insomma, l’università è forse evoluta in senso accademico, ma non in senso divulgativo. L’università non riesce a raggiungere lo scopo pedagogico ad ampio raggio che dovrebbe perseguire, considerando anche il grande numero di iscritti all’istruzione superiore. Ha ragione, sottoscrivo ogni singola parola: forse perchè faccio parte della generazione deficitaria di questi strumenti e, allo stesso tempo, faccio parte – seppur in modo marginale, essendo una dottoranda in UK – proprio della cerchia accademica di cui sopra.
Il vero problema dell’elaborato, a mio modesto parere, è proprio l’andamento accademico dei saggi che seguono l’introduzione. Se Canova si fosse fermato alle prime trenta pagine, il saggio sarebbe stato impeccabile nei presupposti. Se però, a seguire di questo preambolo, vengono presentati dei saggi accademici di lettura difficile e di digestione altrettanto ardua, allora viene spontaneo chiedersi: dove è il ruolo della divulgazione in tutto questo?
I saggi proposti come critica positiva della pop-art in ambito mediatico (fumetto, romanzo, televisione e cinema sono dei media, mettetela come volete) riescono a essere fruibili solo da un pubblico in grado di comprendere in modo dettagliato la grammatica interna di tali mezzi di comunicazione. È difficile che una persona, magari amante di Tex da bambino, riesca realmente ad apprezzare il saggio proposto da Canova.
Non so se questa possa essere una critica costruttiva all’elaborato del Professore Canova; quello che però è certo è che questo lavoro ha due risultati, uno conscio e l’altro inconscio. Il primo, quello sottolineato nell’introduzione e portato da Canova come una bandiera, è stato mostrare che anche la pop-art ha una sua dignità interna, e che non esiste niente di più rozzo come lo snobismo per l’arte popolare o il cinema di genere. I saggi, attraverso la loro ricostruzione accurata e la loro analisi minuziosa, riescono a portare il lettore nel vivo delle strutture interne delle opere e danno prova di quanto lavoro ci sia stato dietro delle pietre miliari della cultura popolare italiana.
Il secondo risultato, quello collaterale e meno voluto, è di avere esasperato ancora di più la separazione tra accademia e divulgazione: l’introduzione lasciava presagire un saggio di più ampio respiro, con una grammatica leggera e colloquiale, che lasciasse tutti basilarmente edotti – o quantomeno consapevoli – dell’importanza di Tex o Ettore Scola.
Quello che invece emerge è una serie di saggi che potrebbero leggere solo gli addetti ai lavori, escludendo – ancora una volta – coloro i quali non sono riusciti, o non hanno voluto avere una visione più specifica degli argomenti trattati. Se un libro viene scritto per porre l’accento sulla mancanza di educazione artistica del popolo italiano, come mai poi il quadro generale che ne emerge è quello di un saggio elitario e poco accessibile al popolo?
Non dico che un lavoro “complesso” non debba esistere più, assolutamente: il contrario. La complessità dovrebbe incontrare quante più menti possibili, a dimostrazione che la complessità non è difficoltà. Se ci si lamenta che il popolo italiano non ha la grammatica simbolica sufficiente a comprendere una mostra d’arte, uno spettacolo teatrale o un film di Sorrentino, allora – per l’amor di Dio – cominciamo a scrivere qualcosa che possa essere davvero una grammatica essenziale, utilizzabile dai più.
Non basta solo l’introduzione, ma tutto il saggio dovrebbe servire.
Recensione di Clelia Attanasio
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