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Gran de rosari. Poesie polesane - Gianni Sparapan - copertina
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Un piccolo tesoro di cultura lingua poesia in Polesine, prima e dopo l'Alluvione del 51, lungo ritmi e pause stagionali, sapide evocazioni storiche e ritratti paesani di Villadose e dintorni. La sintesi più alta, forse, del cultore di lingua e storia locali.
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Dettagli

2022
26 gennaio 2022
172 p., Brossura
9791280446084

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alida airaghi
Recensioni: 4/5
Storie private e collettive nel Veneto del passato

140 composizioni in lingua rodigina, con testo italiano in calce e glossario conclusivo, che attraversano un secolo di vicende sociali e familiari, sporgendosi oltre i confini ristretti del paese nativo, con uno sguardo che si allarga su pianure, monti e fiumi della regione, lambendo anche la Venezia Giulia. Appunto come i grani del rosario cui allude il titolo, si inanellano episodi tragici della storia e della cronaca veneta, dalle vicende migratorie del primo ’900, alle guerre mondiali, alla Resistenza con i giovani partigiani impiccati a Bassano. Ma è soprattutto la terribile alluvione del ’51 che campeggia come un incubo nella memoria del poeta, allora bambino testimone impaurito dello straripamento vorticoso e travolgente di un fiume, che provocò lutti, evacuazioni, povertà. Il borgo di Villadose rivive in una galleria di personaggi tipici, bozzetti disegnati con complice nostalgia (il barbiere, l’orbo, il calzolaio, il cappellano, il pescatore), o con la pietà di chi visita il cimitero di una Spoon River domestica, prendendo nota di suicidi e omicidi, morti infantili e lunghe agonie, compendiando in pochi versi il percorso terrestre di medici becchini prostitute fioraie maestri: a nessuna creatura sepolta viene negata la grazia di un ricordo, di una preghiera laica, che la ripaghi dal “vivare male”. Le prove più convincenti del volume sono quelle in cui l’autore racconta la sofferenza che lega animali e piante nello stare al mondo, come in “El lamento de le creature”, in cui un ciliegio, un asino, un maiale e un merlo sembrano invidiare a vicenda l’uno la sorte dell’altro, per concludere infine che nessuno di loro può dichiararsi felice della propria, nell’amara constatazione della pena che accomuna ogni esistenza. Il Polesine rivisitato di Sparapan, benché maledetto dal lavoro duro dei campi e da una miseria atavica, torna a pungere proprio perché morto. Irrecuperabile, se non scavando nella memoria: “A scarpiè de ricordi / a xe tacàle beate imàjini”.

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