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Anno edizione: 2004
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Sa'dī
IL GIARDINO DELLE ROSE
trad. dal francese di Marina Marino,
pp. 87, EURO 13,
Pisani, Isola del Liri (Fr) 2004
È l'anno 1219 quando la provincia del Khwàrasm, a est del Mar Caspio, cede all'invasione delle orde mongole guidate da Chingìz-Khàn (Gengiz-Khan). È l'inizio della fine del glorioso califfato di Baghdad, che cade rovinosamente nel 1258. Nella suddivisione dell'impero mongolo, la Persia e l'Iraq toccano ai principi Ilkhanidi, eredi di Hùlagù Khan, figlio di Chingìz.
Questo è il contesto storico in cui Shaykh Abù-'Abdi'llàh Musharrifu'd-Dìn b. Muslih Sa'dì visse. Nato nel 1213 a Shiràz, una delle città più importanti e belle della regione del Fàrs (corrispondente all'area sud occidentale dell'odierno Iran), è considerato uno dei massimi esponenti delle belle lettere in lingua farsi (persiano d'Iran), poeta e maestro indiscusso di prosa.
Non ci sono pervenute molte notizie riguardo la sua vita: rimasto presto orfano del padre, si trasferì a Baghdad per studiare nella prestigiosa scuola Nezàmiyyeh, viaggiò a lungo per la Mesopotamia, la Siria e il Vicino Oriente, fino ad arrivare in Egitto e infine a Mecca, tornò nella città natale nel 1257 e qui compose il suo primo capolavoro, il poema didattico Bustàn (Il giardino), in onore del locale governatore selgiuchide. L'anno successivo scrisse il Golestàn (Il roseto), in prosa rimata e ritmica con versi in persiano e arabo, di contenuto etico e moraleggiante, racconti più o meno brevi suddivisi in capitoli per argomento: la condotta dei re, i costumi dei dervisci, la virtù della temperanza, i vantaggi del silenzio, l'amore e la giovinezza, la vecchiaia, l'educazione. Invecchiò e nel 1292 morì a Shiràz, amatissimo dai suoi concittadini. Ancora oggi la sua tomba è meta di pellegrinaggio "dotto" di stranieri e persiani, in quanto esempio indiscusso di equilibrio ed eleganza formale, modello inimitato di "perfetta aderenza fra lingua e pensiero, forma e contenuto". È per questo che molte delle sue frasi sono diventate proverbi (la sua caratteristica fu definita sahl-e momtane' , l'inaccessibile semplicità) e non è raro trovare iraniani, più o meno dotti, che sappiano recitare versi sa'diani a memoria.
Gianroberto Scarcia definisce il Golestàn come "il miglior esempio di un'arte concepita come esercizio stilistico e come sano divertimento intellettuale" che lascia in secondo piano il contenuto sapienziale e moralistico. Dalla sua lettura emerge il mondo concettuale del tempo, l'etica religiosa, talvolta mistica, non rigida ma tutto sommato tollerante, lassista come dice Bausani, sentita ancora oggi, a distanza di secoli, come autenticamente persiana. Si tratta di racconti che presentano ciò che era ed è considerato universale: il buon senso, l'astuzia, la debolezza umana, i piaceri - sia etero che omo - del sesso (questi ultimi quasi assenti nella raccolta della Pisani che raccoglie alcuni componimenti, fra i più brevi del Golestàn ).
Se la traduzione è già per sua natura incline al tradimento, tradurre il persiano di Sa'di è tradirlo a priori. Si può rendere il senso logico della narrazione, ma il risultato rischia di essere scialbo e banale. Ciò non toglie che vi siano belle e "storiche" traduzioni (come quella di Italo Pizzi, la prima in italiano, datata 1917). Ma se il contenuto è la forma, la traduzione diventa un'impresa quasi impossibile. Il giardino delle rose è tradotto dal francese, quindi l'anima dell'opera per così dire è persa in partenza. Ma non è nelle pretese dell'editore quello di proporre un testo scientificamente rigoroso né esaustivo, infatti non è rivolto agli accademici ma a un pubblico semplicemente curioso e assolve il compito di interessare il lettore a una letteratura di stile "esopico", in veste centro-asiatica. Si legge in mezz'ora, piacevolmente, ha una veste curata e arricchita da miniature persiane del XV secolo. E pazienza se non ha introduzioni o prefazioni. Può essere considerato un invito a lanciare uno sguardo su una produzione culturale straordinaria e remota, non solo in termini geografici.
Claudia La Barbera
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