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Come Atena dalla testa di Zeus, Djuna Barnes nacque alla narrazione perfettamente armata di concettosità, eleganza e insolenza. E a tale sua prima apparizione assistiamo in questi quattordici racconti, scritti fra il 1914 e il 1916 e pubblicati in svariati giornali e riviste. In quel periodo la Barnes era una giovane giornalista di New York che scriveva di cronaca brillante, teatro, attualità, ma soprattutto si aggirava nelle periferie della metropoli, nelle sale da ballo, nelle birrerie, nonché nelle palestre e nei mattatoi, con un fiuto impeccabile nello scovare tane sinistre ed eccentriche. È questa l’esperienza da cui nascono i racconti di Fumo, con la loro incantevole mescolanza di brutti facts of life e arditezze metafisiche. I personaggi, che potremmo immaginare tutti fotografati dalla Arbus, parlano già per aforismi, metafore, taglienti verità apocalittiche, al pari di quelli ormai celebri che incontreremo più tardi nella Foresta della notte – ma qui il timbro è più arioso e giocoso, come in altrettante tetre pochades.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
"Per quale motivo tutte le grandi cose debbono essere impolverate? Le cattedrali, i libri, i mulini a vento? E le anticaglie, l'interno delle scodelle vuote, il fondo della cisterna che ha conosciuto le zampe del passero". E' questa la prosa che soffia in casa Barnes, scrittrice che Cristina Campo definì "una pura artista il cui nome trova modo di cadere ogni volta fuori dai repertori e di cui a malapena si conosce un ritratto". Siamo in una selva di racconti giocati su un piedistallo quasi incompiuto, una specie di quotidiano sospeso, a tratti surreale, spigoli di azione sulla scena come strambi e sfuggenti, e tuttavia carichi di una nascosta bellezza che la parola, a un occhio attento, fa arrivare chiara, diretta: "Vi sono cose che non tollerano d'essere rimestate, e una di queste è l'acqua limpida". Vite così agitate fra il sonno e la tragedia, piccoli eventi a caricare le polveri del carattere e insieme destini fermi a ringraziare "l'oscurità di una sera dietro le quinte". Ci sono artisti che non bisogna per forza comprendere, su cui ogni logica depone il suo bisturi, tanta è l'imprendibilità che li avvolge e li modella. Quando si legge che "ci sono uomini che, per camminare un poco nei corridoi della mente, si tolgono gli stivali", non resta che chinarsi a questa sottile eleganza, a questa luce noncurante che salta e dimentica schemi fissi per obbedire soltanto al proprio senso. Si cade perché si vive e si sceglie, e si cade perché il tempo ha nelle mani forbici troppo grandi per impazzire a sfidarlo: "Certe donne, invecchiando, perdono fiducia e peso e, sedute su dure scarne sedie di vimini, arrivano in fondo alle pagine della vita come un punto esclamativo per scivolare infine come schegge nello Stige". E' dunque così che sgomita la penna tra i frantumi del suo stesso inchiostro, cedendo e esaltando l'inesorabilità delle cose e ricordandoci ogni momento che "un grand'uomo dovrebbe possedere una riserva di stomaci". Racconti bellissimi, stille disobbedienti.
Questi racconti giovanili della Barnes sono una vera sorpresa. Una scrittrice eccentrica che vive intensamente la sua città New York e se ne serve come materiale per i suoi brevi scritti, ora ironici, ora grotteschi o dall'atmosfera noir. Sono gli anni delle avanguardie, di Marcel Duchamp e di una loro comune amica la Baronessa Elsa von Elsa von Freytag-Loringhoven e questo spiega molte cose.... Un leggibilissimo sperintalismo!
Recensioni
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Come Atena dalla testa di Zeus, Djuna Barnes nacque alla narrazione perfettamente armata di concettosità, eleganza e insolenza. E a tale sua prima apparizione assistiamo in questi quattordici racconti, scritti fra il 1914 e il 1916 e pubblicati in svariati giornali e riviste. In quel periodo la Barnes era una giovane giornalista di New York che scriveva di cronaca brillante, teatro, attualità, ma soprattutto si aggirava nelle periferie della metropoli, nelle sale da ballo, nelle birrerie, nonché nelle palestre e nei mattatoi, con un fiuto impeccabile nello scovare tane sinistre ed eccentriche. è questa l'esperienza da cui nascono i racconti di Fumo, con la loro incantevole mescolanza di brutti facts of life e arditezze metafisiche. I personaggi, che potremmo immaginare tutti fotografati dalla Arbus, parlano già per aforismi, metafore, taglienti verità apocalittiche, al pari di quelli ormai celebri che incontreremo più tardi nella Foresta della notte ma qui il timbro è più arioso e giocoso, come in altrettante tetre pochades.
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