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Come Atena dalla testa di Zeus, Djuna Barnes nacque alla narrazione perfettamente armata di concettosità, eleganza e insolenza. E a tale sua prima apparizione assistiamo in questi quattordici racconti, scritti fra il 1914 e il 1916 e pubblicati in svariati giornali e riviste. In quel periodo la Barnes era una giovane giornalista di New York che scriveva di cronaca brillante, teatro, attualità, ma soprattutto si aggirava nelle periferie della metropoli, nelle sale da ballo, nelle birrerie, nonché nelle palestre e nei mattatoi, con un fiuto impeccabile nello scovare tane sinistre ed eccentriche. È questa l’esperienza da cui nascono i racconti di Fumo, con la loro incantevole mescolanza di brutti facts of life e arditezze metafisiche. I personaggi, che potremmo immaginare tutti fotografati dalla Arbus, parlano già per aforismi, metafore, taglienti verità apocalittiche, al pari di quelli ormai celebri che incontreremo più tardi nella Foresta della notte – ma qui il timbro è più arioso e giocoso, come in altrettante tetre pochades.
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