Questo romanzo, pubblicato nel 1936 con una presentazione di T.S. Eliot, ci appare oggi, fra i grandi libri del nostro secolo, come un essere solitario, esotico e fiero. Qui, sin dallinizio, laria del tempo ci avvolge in una fosca cappa: siamo nella Parigi dissipata degli Anni Venti, che si abbandona alla «grande inquietudine detta divertimento», o ci aggiriamo per unEuropa che si offre come una polverosa, opulenta esposizione di bric-à-brac, in attesa dellinventario. Ma presto avvertiamo che cè anche una forte distanza dai tempi e dai luoghi: un vento metafisico turbina in queste pagine e solleva le immagini in mulinelli incessanti. La mescolanza intima fra crudezza e concettosità, che fu il prodigio degli Elisabettiani, risorge nella prosa della Barnes, dove le parole sembrano incurvarsi nelle spire di un puro delirio ornamentale, per trafiggere poi con sentenze mortali.
Al centro della Foresta della Notte dorme la Bella Schizofrenica, in un letto dellHôtel Récamier. È Robin: la sua carne ha una «grana arborea», il suo corpo esala il «profumo dei funghi», la sua epidermide è azzurrata, come da un fluido sottocutaneo. «Creatura selvaggia intrappolata in una pelle di donna», Robin porta ovunque la calamità e la fascinazione, procedendo con passo da sonnambula sempre più in là nella sua depravata innocenza. Intorno a lei vediamo disporsi, come in un quadrilatero di polene abbandonate, gli altri personaggi del romanzo: Nora, che cela nel suo cuore «il fossile di Robin», quasi una memoria ancestrale; la rapace Jenny; il falso Barone Volkbein, pateticamente devoto a una nobiltà fantomatica. Ma su tutti torreggia il dottor Matthew OConnor, ciarlatano mistico, Guardiano della Notte, il cui sontuoso e corrusco blaterare si contrappone alle rare e monche parole di Robin. Il dottor OConnor ci viene incontro come un cliente pittoresco del Café de la Mairie du VI° e sentiamo, per così dire, la sua voce echeggiare da tutti i bar perduti degli Anni Venti. Ma nella sua apparizione riconosciamo anche una voce perenne, penetrante, ossessiva, che continuerà a parlare «finché la furia della notte non avrà fatto marcire fino in fondo il proprio fuoco». È una figura indelebile, un dottore non della malattia, piuttosto del «male universale»: quel male che non guarisce, ma vuole disperatamente chiamarsi per nome e quel nome è la letteratura.
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