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Anno edizione: 2019
Anno edizione: 2020
Anno edizione: 2020
Proposto al Premio Strega 2020 da Arnaldo Colasanti.
Nei giorni in cui l'ultima coda dell'estate lascia la Sardegna orientale, a Telévras una bambina di dieci anni sparisce nel nulla. Non parla, teme il latrato dei cani e le urla degli uomini, ed è nera, come i suoi genitori, venditori ambulanti di passaggio in terra sarda. Tutta la comunità si stringe solidale alla famiglia nelle ricerche: dal maresciallo Ettore Tigàssu al mitico centenario Aedo Pistis, fino agli sgangherati avventori della mescita del paese, devoti al vino Cannonau. Un microcosmo a cui il lettore avrà accesso a poco a poco insieme al personaggio dello "straniero", al suo primo incontro (e scontro) culturale con la gente del posto: Ferruccio, milanese, che ha finito di scontare ventisei anni di prigione e deve riprendere confidenza con il mondo. Nel nuovo romanzo di Gesuino Némus ambientato nella immaginaria - e ormai leggendaria - Telévras, nel cuore dell'Ogliastra, il mistero si dipana percorrendo vie mai battute, itinerari irrazionali, in un baccanale di cibo, vino, gioia di vivere e tradizioni sacrileghe.
Proposto al Premio Strega 2020 da Arnaldo Colasanti: «D'estate, nell'immaginaria Telévras, una bambina di dieci anni sparisce nel nulla. Non parla, è nera come i suoi genitori, venditori ambulanti di passaggio. La comunità si stringe alla famiglia nelle ricerche: dal maresciallo Ettore Tigàssu al centenario Aedo Pistis, fino agli strani avventori della mescita del paese, devoti al mitico vino Cannonau. Certo, ovunque scorre un'incancellabile disperazione, eppure la scrittura sembra nutrirsi di una profonda speranza. Pian piano, il mistero della sparizione diventa la forma complessa di un paesaggio, finisce per identificarsi con il mistero e con la bellezza di una terra preziosa, arida, meravigliosa, fatta sì di silenzi e di tradizioni sacrileghe eppure, al tempo stesso, di una forza vitale senza confronti. Nemus, col passo del romanziere di una volta, narra e racconta per far vivere all'unisono i personaggi e i lettori. Nulla è pretestuoso: tutto è necessario, così come la vita o forse come la possibile morte della bambina. Quello che più colpisce del romanzo di Gesuino Nemus è la sua capacità di immaginare la nuda verità dell'esistenza. Un paradosso che solo la vera letteratura sa esprimere.»
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Trama ben tratteggiata, anche se l'intreccio si intuisce abbastanza in fretta e ci si chiede come mai il carabiniere Tigassu e i compaesani non prendano da subito la pista giusta. Come sempre complotti, corruzione ai livelli più alti delle istituzioni vengono ben evidenziati lasciando un po' amareggiati. Non convince come il primo libro, esagera nell'esaltare ex galeotti come salvatori e custodi del buon senso e fedeltà e non si capisce bene l'astio che in tutti i libri Nemus ha verso gli editori e i recensori dei suoi libri che accusa di recensire senza leggere.
Grazie a dei "veri sardi" ho conosciuto questo autore che è stata una vera scoperta! Lettura piacevole e scorrevole Lo consiglio molto!!
E dopo teologia, catechismi, ora pro nobis, ora pure l'Eresia. Il vino è buono, la scrittura pure meglio. Lo adoro quest'uomo-scrittore che non riuscirò a conoscere mai (sigh!). Fine. Ora stappo una bottiglia. Prosit.
Recensioni
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«Dove non può il sostantivo, l’aggettivo ha effetti dirompenti», così, con questa e tante altre perle di saggezza, Gesuino Némus (al secolo Matteo Locci) incantò quattro anni fa lettori e critica, con un delizioso e divertentissimo romanzo d’esordio intitolato La teologia del cinghiale (Elliot), insieme e grazie al quale, lo scrittore sardo si è aggiudicato, tra gli altri, il Campiello Opera Prima ed il John Fante; cioè, due tra i premi letterari più importanti d’Italia.
Oggi Némus torna senza esitazione ad indossare le vesti del funambolo della parola e, con una disinvoltura ed una classe non comuni, alza il sipario su quel fantastico spettacolo di piroette e numeri che solo lui sa, senza errori, portare a termine, muovendosi tra i pericoli di due lingue così importanti e complesse (il sardo, la sua prima scelta, e l’italiano come lingua straniera) da fare impallidire persino le insidiosissime, mitiche Simplegadi. Il risultato è lì, a beneficio di un lettore curioso e divertito, sempre più sorpreso dalla quantità di riferimenti, tutti calzanti e mai sfrontati; perché Némus è indubbiamente colto, ma non lo vuole ammettere.
Il ritorno dello scrittore di Jerzu – e soprattutto di quel paesino della Sardegna orientale chiamato Televras, che sta ormai a Némus come Vigata sta a Camilleri – si deve a L’eresia del cannonau (188 pagine, 16,50 euro), romanzo, anche questo divertente e profondo (alcuni, lo so, potranno considerarla una contraddizione in termini, ma vi assicuro che non lo è) uscito a novembre per i tipi di Elliot edizioni. Al centro della storia c’è la tragica scomparsa di una bimba; che sconvolge nel modo più violento e doloroso il languido susseguirsi delle ridondanti giornate della mai doma comunità di Televras e la induce ad organizzare ricerche sempre più difficili in territori che solo con grande generosità potremmo definire impervi.
Tutti si muovono guidati dalle tre indiscusse autorità del paese: Padre Carlo, il Maresciallo Tigassu e, ovviamente, Samuele Baccanti della omonima “Pubblica mescita Cannonau & Basta”, mentre una pletora di personaggi altrettanto illustri come un aedo centenario che dispensa racconti non verificabili, un eremita dal passato hippy, chiamato “il vescovo” ed un gruppo di non meglio identificati, devoti estimatori del “Cannonau” comincia a disegnare i contorni di una comunità, fiera fino al paradosso delle proprie origini, eppure sempre pronta ad offrire a chi, come Ferruccio – che sardo non è – la possibilità di godere di una terra che «ti può guarire, se davvero la ami».
Anche questa volta l’autore non si è accontentato di imbastire la solita trama con finale, più o meno “come da copione”; che, per carità, forse sarebbe andata, comunque, bene. Già sbilanciatosi, direi senza possibilità di ritorno, con La teologia del cinghiale, Némus è tornato, a modo suo, sui grandi temi dell’amicizia, della lealtà, dell’amore e, adesso, anche dell’inclusione, dando voce a tutti quei volti che di solito voce non hanno e che, invece, sanno insegnare “come si insegna veramente: senza voler insegnare”, cioè con le loro vite, i loro sacrifici, la loro pazienza, facendo leva su quella capacità di «tramandare l’eresia e non il dogma» che i semplici, e forse con loro i folli, hanno, «proprio come il Cannonau». Per questo, la recherche, alla fine, non sarà solo quella, necessaria, della bambina.
Una menzione a parte meritano, in questo ultimo romanzo di Némus, gli eserghi; qui addirittura in tre lingue: latino, italiano e, ovviamente, sardo, cominciano a diventare delle vere e proprie perle; quasi come quelli di Colin Dexter (anch’egli, d’altra parte, era un isolano).
Recensione di Camillo Scaduto
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