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Elio Vittorini. La narrativa, la saggistica, le traduzioni, le riviste, l'attività editoriale
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Descrizione


Il profilo di Vittorini (Siracusa 1908-Milano 1966) è condotto attraverso l'intreccio di elementi biografici e l'analisi delle sue opere, tentando di cogliere il senso della scrittura e della vita dell'autore. Vittorini scrisse opere di narrativa e di saggistica, effettuò traduzioni e diresse alcune riviste e collane. Intensa fu infatti la sua attività nel dopoguerra come organizzatore culturale: diresse l'edizione milanese dell'Unità; nel 1945 fondò Il Politecnico, impegnato in una battaglia di rinnovamento intellettuale-artistico; per Einaudi diresse quindi la collana I Gettoni e nel 1959 fondò e diresse Il Menabò insieme a Calvino, importante per l'avvio del dibattito sullo sperimentalismo letterario degli anni 60.
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Dettagli

1994
1 gennaio 1994
384 p.
9788842515883

Voce della critica


recensione di Esposito, E., L'Indice 1994, n.11

Anna Panicali potrebbe parlare a buon diritto, a proposito del suo rapporto con la scrittura di Elio Vittorini; di "una lunga fedeltà". Risale al '68 (se non erro) il suo primo intervento, poi confluito nel volume "Il primo Vittorini" (Celuc, Milano 1974), mentre nel 1982 il lungo saggio "Il romanzo del lavoro" (Milella, Lecce) costituiva già una precisa interpretazione del percorso dello scrittore siciliano. Era dunque un suo diritto quello di dare ai vari studi e alla sua ritornante attenzione la struttura sistematica e la veste organica della monografia, tentando di comporre in un unico discorso le istanze che la molteplice attività di Vittorini da sempre sollecita.
Il compito risulta assolto egregiamente; le esigenze di informazione e di completezza deprimono forse un poco la verve che ha sempre caratterizzato l'impegno critico della Panicali, ma il ritratto che ne esce è quello che si voleva, ed è ancora disegnato con la partecipazione di chi crede - nonostante le molte voci contrarie e le contraddizioni stesse di Vittorini - che si abbia a che fare con un uomo che ha saputo fare della "libertà di pensiero" e del "coraggio mentale" un abito quotidiano. Le bugie o le mistificazioni che si amano rimproverare a Vittorini (la retrodatazione del suo antifascismo, in primo luogo, o la mitizzazione autobiografica) sono infatti interpretati qui alla luce dell'attività tutta dell'uomo, e ricondotti alla dimensione che prospetticamente meglio li definisce, anche se forse si può non condividere l'interpretazione che la Panicali dà delle autocensure di "Diario in pubblico" come necessarie "non per salvarsi, ma per salvare la propria battaglia, che altrimenti avrebbe perso di valore".
Il fatto è che parlare di Vittorini continua a essere difficile, perché non siamo mai di fronte a un letterato "puro", e i problemi che la sua opera ci pone continuano a essere di politica e di cultura prima che di estetica e di tecnica narrativa, continuano a essere problemi di oggi e della nostra vita, e non solo di esangue accademia. La Panicali ha il merito di indagare i diversi versanti dell'attività di Vittorini appunto in un'ottica unitaria, correttamente individuata nell'inesausta ricerca (certo non esente da errori) di ciò che egli stesso diceva "la verità": concetto abusato e che rischia sempre di suonare retorico, ma che non si riesce a tradurre facilmente in un altro termine. La "verità" del giovane Vittorini, certo, non è la stessa del direttore del "Menabò", eppure ciò che non cambia in lui è il coraggio di cercarla, e quindi di riconoscere i propri sbagli e di reimpostare il proprio lavoro per non tradire un obiettivo che è di scrittore non meno che d'intellettuale ("intellettuale": una parola che non gli piaceva per quanto di astratto e di velleitario nasconde; eppure egli seppe come pochi altri interpretarla nel suo significato migliore).
Per quanto riguarda lo scrittore, e specificamente la sua tecnica, continuamente viene qui ribadita la sperimentalità delle soluzioni via via adottate, sia che si tratti del difficile equilibrio delle pagine di esordio, dove la "musica della prosa rondesca" appare minata da continui "segni di dissonanza", sia che si insista sulla tormentata vicenda compositiva del "Garofano rosso", "romanzo dell'ambiguità", o sui "diversi spazi di linguaggio" e sulla teatralità di "Uomini e no". Sarà bene ricordare che proprio alla Panicali si devono lucide pagine di analisi della prosa vittoriniana degli anni trenta; e da questa attenzione corroborata da indagini di prima mano nascono anche le attuali, anche se più rapide, osservazioni su "Conversazione in Sicilia" (di cui si sottolinea "l'intento di conservare alla parola la sua linea parlata e al discorso la naturalezza dell'oralità") o sul narratore delle "Donne di Messina", che "interferisce, commenta e sembra voler criticare, in toni ironici e giocosi, la possibilità di una narrazione che intenda ancora rispettare la coerenza impersonale del verismo: un canone statico che a Vittorini non interessa più".
Nel ridisegnare il percorso di questa narrativa, la Panicali insiste giustamente sull'importanza di alcune tappe non sempre adeguatamente valutate dalla critica ("Giochi di ragazza" ma soprattutto "Erica e i suoi fratelli"), e sul ritornare di certe figure e concetti che pienamente appartengono alla mitologia vittoriniana: non solo il "gran Lombardo", ma le "città del mondo" per esempio, o la "compagnia" che dalle pagine di "Erica" si farà "riunione" in quelle delle "Donne di Messina". E discute e corregge linee interpretative già consolidate, siano quelle che puntano sull'importanza del dialogo in "Conversazione" ("Ma se la conversazione unisce, unisce solo coloro che sono simili e vicini. È questo, a mio avviso, il senso dell'opera: un senso che allude al limite della conversazione"), o quelle relative all'ideologia delle "Donne di Messina": "implicitamente, alla fine del romanzo è l'ideologia - qualsiasi ideologia - che viene negata: anche quella che pone a fondamento del vivere umano il lavoro sociale".
Riduttiva mi sembra, invece, la lettura che viene data del "Sempione strizza l'occhio al Frejus", come riflessione "sull'etica del lavoro come 'dovere'", il critico, forse, si lascia qui prendere proprio dal demone dell'ideologia, e non si accorge che accanto alla figura dell'uomo - elefante - "simbolo dell'esistenza come funzione lavorativa, 'al di fuori di ogni cosa', espropriata sia dal fine sia dal risultato del lavoro" - andrebbe giustamente valutata quella dei "biondini": che, è vero, "spingono il proprio masso senza ricavarne alcun merito. Non dominano lo sforzo, ma ne sono dominati, lo patiscono", ma che sono anche coloro grazie ai quali la forza e il lavoro degli altri acquista propriamente senso e consapevolezza. Dice Vittorini: "Egli è la metà di noi che guarda e studia, e anche la metà in noi e guarda e studia, e ormai vediamo anche noi qualcosa di quello che vede lui. Ci ha insegnato qualcosa, a furia di grattarsi il capo dopo d'aver veduto. Che sia il suo compenso di portarci a vedere quello che vede lui;". Anche in "Conversazione", del resto, il critico non pare sensibile all'importanza che, sul verso del nonno "gran Lombardo", viene assegnata al padre "dagli occhi azzurri", mentre nell'uno e nell'altro caso non mi pare da sottovalutare il significato che essi adombrano, identificabile con quello stesso della letteratura, della poesia.£ Convincente invece l'immagine che ci viene fornita in generale dell'ultimo Vittorini, quello più responsabilmente esposto sul piano del dibattito e della progettazione culturale, e quello più dolorosamente toccato dallo scacco, sia rispetto al mondo comunista che ha costituito per anni (e mai cesserà in fondo di esserlo) il suo polo di riferimento, sia rispetto alle possibilità della letteratura stessa. Si veda in particolare ciò che si dice della stagione del "Menabò", che molti vedono proiettata "interamente e acriticamente verso il mondo della tecnica", mentre, come precisa la Pascali, "per lui il nuovo mondo - lungi dall'essere un argomento in più da trattare - si configura come una nuova antropologia e domanda un nuovo linguaggio"; cosa che appare chiara dalla contemporanea meditazione delle 'Due tensioni: "l'uomo oggi ha bisogno di riflettere, ha bisogno di rendersi criticamente conto delle cose, di rifiutare e di scegliere, e invece l'arte continua a fare un discorso a-critico...' la sua salvezza può essere di diventare anch'essa moderna spostandosi anch'essa sul piano della riflessione critica, della probabilità e delle ipotesi". Idee che sono tuttora da discutere, e alle quali questo lavoro presta nuova eco e opportuna attenzione, facendo ciò che, nella critica, non si fa più (o non si vuole più fare): coniugare letteratura e vita, leggere l'una alla luce dell'altra e dei suoi problemi (una scelta che non è solo questione di metodologia).

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