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L' economia politica come scienza morale e sociale - Albert O. Hirschman - copertina
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L' economia politica come scienza morale e sociale - Albert O. Hirschman - copertina

Dettagli

1987
1 gennaio 1987
224 p.
9788820716486

Voce della critica

HIRSCHMAN, ALBERT OTTO, Potenza nazionale e commercio estero. Gli anni Trenta, l'Italia e la ricostruzione, Il Mulino, 1987

HIRSCHMAN, ALBERT OTTO, L'economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, 1987
recensione di Ginzburg, A., L'Indice 1988, n. 2

1. Ingannato dall'assonanza del titolo, chi prendesse in mano il volume "Potenza nazionale e commercio estero" potrebbe legittimamente ritenere di trovarsi di fronte, finalmente, alla traduzione italiana di "National Power and the structure of Foreign Trade" (Potenza nazionale e struttura del commercio estero), il primo libro di Hirschman. Scritto nel 1941-42 pubblicato nel 1945, ristampato nei '69 e nell'80 (per le edizioni University of California Press), esso è ormai diventato un classico della letteratura sull'economia politica delle relazioni internazionali. In realtà, come la mole del libro italiano e, soprattutto, il suo sottotitolo suggeriscono, questo è vero solo in parte. I curatori del volume hanno scelto di tradurre soltanto la prima parte di "National Power" (intitolata "Aspetti teorici e storici") facendola precedere e seguire da altri saggi. Come nella riedizione americana dell'80, questa prima parte è preceduta da un acuto saggio del '78, "Oltre l'asimmetria: osservazioni critiche su me stesso da giovane e su alcuni vecchi amici"; seppure già comparso in italiano, esso integra utilmente, a mo di introduzione critica retrospettiva dell'autore, la lettura dello scritto del '45. La pubblicazione della prima parte di quest'ultimo è seguita da due gruppi di saggi. Nel primo, vi è un lungo scritto, inedito in assoluto, la "Memoria sul controllo dei cambi in Italia" presentata alla Conferenza Internazionale della Società delle Nazioni tenuta a Bergen nel 1939. Nel secondo gruppo, cinque saggi, inediti nella nostra lingua (se si eccettua la versione ridotta di uno di essi), dedicati alla ricostruzione economica del dopoguerra in Italia, pubblicati fra il marzo del '47 e il dicembre del '48.
Un volume così concepito presenta alcuni (ovvi) vantaggi, e alcuni (meno ovvi) svantaggi. Fra i primi, l'utilità per il lettore italiano di disporre di saggi che forniscono ricostruzioni molto limpide e accurate - con un'attenzione veramente insolita per i dettagli amministrativi- di due periodi cruciali della storia economica del nostro paese. Inoltre la "Memoria sul controllo dei cambi", come osservano i curatori, costituisce a tutt'oggi uno dei pochi lavori dedicati all'argomento. La pubblicazione di questi saggi, infine, ha fornito ad Asso e a de Cecco l'occasione per scrivere un'introduzione ricca di spunti e di documenti inediti sui riflessi (e sulle influenze) internazionali della politica economica italiana dei due periodi. Fra gli svantaggi, un effetto di "schiacciamento" dell'opera del '45, che finisce involontariamente per ricevere una luce riduttiva, e poi la forzatura, in parte anch'essa involontaria, implicita nel titolo (e nella composizione) del volume, e l'amputazione della seconda parte di "National Power", contenente tre studi statistici sulla struttura del commercio internazionale, assai importanti anche dal punto di vista metodologico.
La forzatura ricorda quella compiuta da Mario Lavagetto, che ha costruito un libro firmato da Svevo che egli non ha mai scritto, intitolato "Zeno" (Einaudi, 1987), comprendente, oltre all'opera maggiore (però integrale), articoli e ritagli di date e provenienze disparate che il lettore è costretto a leggere nella chiave dell'opera principale. In questo caso, la forzatura di raccogliere sotto un titolo che richiama l'opera maggiore scritti di epoche e circostanze diverse appare in contrasto con la tesi avanzata dagli stessi curatori. Nella loro introduzione, Asso e de Cecco rilevano la presenza di una "cesura metodologica" fra l'Hirschman prebellico, più sensibile al fascino dei risultati ottenibili mediante l'impiego del metodo logico-deduttivo della teoria economica, e l'Hirschman post-bellico, più pragmatico, più aperto all'analisi degli sviluppi dialettici e dei ricorsi ciclici, in definitiva più "possibilista" (La tesi della "cesura" è accolta dallo stesso Hirschman in una breve nota scritta per l'edizione italiana, in cui ricorda che "fino alla sconfitta finale del fascismo e del nazismo, tutto quello che scrivevo era in qualche modo costretto a inserirsi in quella lotta; dopo il 1945, tale tensione si era abbassata, con conseguenze di vario tipo"). La gravità dell'amputazione della seconda parte di "National Power" è ammessa implicitamente dagli stessi curatori là dove, dopo aver sostenuto che "il 'messaggio' che emerge dalla lettura di "National Power" si può identificare" nella critica della 'legge di Sombart' sulla tendenza alla riduzione del commercio internazionale, sono poi costretti a rinviare il lettore italiano ad un paragrafo dell'edizione americana (p. 29, nota).
2. Nell'opera del '45, Hirschman inaugura una linea di indagine che costituirà un elemento di continuità in tutta la sua opera: l'esplorazione delle dimensioni politiche implicite nei fenomeni economici (e quindi nelle categorie impiegate per analizzarli; in questo caso, la categoria che si caricherà di imprevisti connotati politici è quella a prima vista insospettabile di "guadagni del commercio internazionale" della teoria ortodossa). Il suo obiettivo è quello di "capire perché e come le relazioni di dipendenza, di influenza e persino di dominio possano originarsi dalle relazioni commerciali" (p. 75). La sua tesi di fondo è che l'espansione dell'influenza tedesca sui paesi dell'Europa orientale e sud-orientale dopo il 1934 (documentata dal primo dei saggi della seconda parte del libro) non era il risultato della 'diabolica' abilità nazista, ma derivava dall'aver saputo cogliere e sfruttare "senza un piano preordinato" le potenzialità implicite nel funzionamento normale del commercio internazionale (come descritto dalla teoria ortodossa). Queste potenzialità non derivano soltanto dal rifornimento di merci che il commercio estero può procurare, esse derivano soprattutto dal fatto che ogni paese dotato di sovranità economica ha la possibilità di interrompere le proprie relazioni economiche con l'estero. Da un lato questa possibilità è la radice del potere che un paese acquisisce nei confronti di altri paesi (per Hirschman, come per Elias, il potere è un rapporto, quindi relativo e asimmetrico, non un attributo di chi lo possiede). Dall'altro, alla maniera di List, la sovranità nazionale diventa un ingrediente essenziale dell'analisi.
Sfruttando la minaccia di interruzione degli scambi, un paese potrà aumentare la sua influenza su altri paesi indirizzando il suo commercio estero lungo due direttrici. Primo, sviluppando politiche dirette ad ostacolare che il partner commerciale si sottragga interamente allo scambio (commerciando con paesi più poveri, aumentando il guadagno del commercio del paese subordinato, secondo il motto 'fortuna est servitus' ecc.). Secondo, adottando politiche destinate ad ostacolare il trasferimento di quote di commercio dei paesi subordinati verso paesi terzi (indirizzando il commercio verso paesi piccoli, spingendo i prezzi di esportazione del partner al di sopra dei prezzi mondiali, concedendo vantaggi 'non di prezzo' sviluppando rapporti bilaterali, e così via).
Nei confronti della teoria marginalista del commercio (la libertà commerciale rende massimo il benessere), Hirschman mostra un atteggiamento ambivalente. Da un lato se ne serve per associare dipendenza e guadagni del commercio. Dall'altro mostra che un'analisi coerente e realistica sia delle 'istituzioni' (in questo caso la sovranità economica che, unitamente all'esperienza storica impedisce di considerare "i dazi come dati", p. 113) sia del "potere" (pp. 117-9) porta o a risultati indeterminati, o a violazioni delle ipotesi di partenza della teoria 'pura' del commercio internazionale. Ricordando che nessun economista ha fornito una descrizione della dipendenza dal commercio internazionale migliore di quella che Adam Smith ci ha dato nel capitolo sulle colonie della "Ricchezza delle Nazioni", Hirschman osserva che gli economisti classici ("a differenza dei loro successori") non hanno "interamente" ignorato l'aspetto politico delle relazioni internazionali. Questa conclusione di Hirschman, del '45, appare tanto più importante e ricca di implicazioni costruttive oggi dopo che, a partire dagli scritti di Sraffa, lo schema analitico dell'economia politica classica, basato sul sovrappiù, e le sue differenze con quello marginalista, sono state riportate più chiaramente alla luce.
3. Le conclusioni dell'analisi del '45 attirarono al suo autore, all'epoca della pubblicazione, le critiche più aspre. Hirschman afferma di accettare la validità delle argomentazioni della teoria economica 'ortodossa' in difesa del liberismo sul piano dell'economia del benessere, ma aggiunge subito dopo (e questo è il punto centrale): il libero commercio non possiede tuttavia "il merito aggiuntivo di eliminare l'aspetto politico delle relazioni economiche internazionali" (p. 153).
Ciò che veniva contestato da Hirschman era il noto principio del pensiero liberale secondo cui il libero commercio conduce al massimo benessere, e quindi alla pace (poiché rende la guerra non necessaria), mentre il protezionismo (o il bilateralismo, quale manifestazione del nazionalismo) conduce alla politica, al conflitto e, in ultima istanza, alla guerra. Coloro che hanno letto uno splendido libro di Hirschman del '77, "Le passioni e gli interessi" (Feltrinelli, 1979), riconosceranno che egli si è occupato, nei due libri, dello stesso tema (o di un tema molto simile). In entrambe le opere, egli critica l'idea liberale secondo cui lo sviluppo del capitalismo (o del libero commercio, del 'doux commerce') porterà automaticamente alla neutralizzazione delle passioni (o del potere, o della guerra). Su questi stessi temi Hirschman è tornato di recente in un saggio dell''82, "Interpretazioni rivali della società di mercato: civilizzatrice, distruttiva o debole?" che figura ora nella raccolta "L'economia politica come scienza morale e sociale" curata da Luca Meldolesi. Ancora una volta l'incursione nella storia delle idee (ricorrente nella sua biografia per comprendere le radici dei "disastri politici") consente ad Hirschman di complicare il discorso: la presenza nella società di "processi contraddittori" fa sì che "interpretazioni rivali" dello sviluppo sociale possano essere contemporaneamente valide (in proporzioni da determinarsi in ogni situazione concreta). La riluttanza psicologica degli scienziati sociali ad ammettere la possibilità di "coesistenza" di tesi contrapposte viene spiegata dall'autore con la difficoltà a rinunciare "a colpire il pubblico con la proclamazione di certe conseguenze inevitabili dei processi in atto. Ma dopo tante profezie mancate, non è nell'interesse della scienza sociale abbracciare la complessità, sia pure sacrificando un po' delle sue pretese di capacità previsiva?" (p. 100).
La critica del modello troppo semplicistico del comportamento umano adottato dagli economisti è ricorrente nei dodici saggi che compongono questo volume, scritti fra il 1973 e il 1986. In essi, oltre a ritornare su concetti presentati nei suoi libri più noti ("connessione", "voce" e "uscita", "interessi"), egli sostiene energicamente la tesi della necessità di ampliare l'area di cui gli economisti si occupano. Ciò di cui essi hanno bisogno - egli scrive ad esempio nel saggio "La moralità e le scienze sociali: una tensione durevole" - è di "incorporare nella loro analisi, ogniqualvolta sia pertinente, caratteristiche e sentimenti basilari come il desiderio di potere e di sacrificio, la paura di annoiarsi, il piacere sia dell'impegno sia dell'imprevedibilità, la ricerca di senso e di comunanza, e così via" (p. 112).
Minare le certezze dottrinarie e complicare il discorso sul comportamento umano: su queste premesse Hirschman propone un ampliamento della gamma delle scelte possibili in ogni situazione data (si veda il saggio "In difesa del possibilismo").
In definitiva, gli scritti di Hirschman sollecitano a comprendere che le pieghe della realtà sono più numerose, imprevedibili, tragiche e interessanti di quanto postulino gli automatismi degli schemi interpretativi rigidi, siano essi il liberismo, il pianismo, il macro-marxismo (si veda, di Hirschman, "Ascesa e declino dell'economia dello sviluppo e altri saggi", Rosenberg & Sellier, Torino 1983, pp. 95 e sgg.), la teoria della 'dependencia' o quella della modernizzazione. Se questi temi spiegano il vivo interesse che gli scritti di Hirschman stanno suscitando anche in Italia, è auspicabile che da esso scaturiscano analisi spregiudicate e non una nuova dottrina, l'hirschmanismo. "Moi, je ne suis pas hirschmanien" si affretterebbe a ribattere Albert Hirschman.

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Albert O. Hirschman

1915, Berlino

Albert Otto Hirschman (1915-2012), nato a Berlino, ha studiato all’Università di Berlino, alla Sorbona, alla London School of Economics e all’Università di Trieste. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale si è trasferito negli Usa, dove ha insegnato nelle più prestigiose università e ha svolto attività di consulenza alla Federal Reserve Board di Washington. Con Feltrinelli ha pubblicato Le passioni e gli interessi. Argomenti in favore del capitalismo prima del suo trionfo (2011).

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