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Dopo il Novecento, la questione della poesia è questione di conservazione, semplicemente e orribilmente. Molto in generale: leggibilità, dicibilità, scrivibilità del mondo – o l’illusione che il mondo sia leggibile, dicibile e scrivibile – non si oppongono, forse, al tentativo concreto di restaurare la sopportabilità o la dignità della vecchia lingua, italiana o altra. Forse non le si oppongono, ma è certo che non si tratta della stessa cosa. Arbeit macht frei, negozio ariano, colpirne uno per educarne cento, 1000 Nassiriya, e le contemporanee illazioni su una civiltà superiore all’altra, sono più che le prostituzioni momentanee di una nostra lingua: sono malattie comunitarie, che turbano per la loro perentorietà; e per la pretesa di giustificare la disumanità come parentesi necessaria per la storia. Gli aforismi sono lapidi inumane. In prossimità di Auschwitz o Bhopal o Bagdad, la lingua è chiamata ad annunciare l’inannunciabile (Dio è morto – e quale speranza rimane?) o l’inascoltato (Cristo è risorto – e dov’è la speranza per chi sta già agonizzando?): certamente nella forma delle profezie di un Tiresia offuscato e amplificato da suoni elettronici, come quello di Giuliano Mesa. Lo spettatore meno forte (perché è il meno divino), trasformato in sfidante, diventa spettacolo: del suo corpo si fa un orrore scuoiato, come dell’animale in macelleria. Marsia è reso impresentabile dopo aver osato un’autorappresentazione contro il dio: è apparso a colui che appare, e si è distanziato da un normale do ut des teologico. La sfida al flauto di Apollo è punita con lo scorticamento, per una specie di contrappasso: la superficialità del suo gesto è rappresentata dall’eliminazione della superficie.
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