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Se da un lato poniamo i Lumi e la Ragione critica, la Scienza e la Scienza applicata – la tecno-scienza – vediamo che la Ragione non può non mettere in opera una «fede» irriducibile, una fede indispensabile al discorso filosofico e scientifico. La Scienza e la filosofia debbono mettere in campo una fede giurata, la fede di un legame sociale, di una testimonianza, di un performativo di promessa che è già da sempre all'opera anche nello spergiuro o nella menzogna, promessa senza la quale non sarebbe possibile alcuna destinazione all’altro. Senza l’esperienza performativa di questo atto di fede elementare, dice Derrida, non ci sarebbe né «legame sociale», né indirizzarsi all’altro, né, in generale, alcuna performatività: né convenzione, né istituzione, né Costituzione, né Stato sovrano, né legge, né, soprattutto, in questo caso, alcuna performatività strutturale della performance produttiva che lega, fin nell’entrata in gioco, il sapere della comunità tecno-scientifica al fare, e la scienza alla tecnica. Se diciamo regolarmente tecnoscienza, precisa Derrida, non è per arrenderci a uno stereotipo contemporaneo, ma per ricordare che, più che mai, l’atto scientifico è, nella sua interezza, un intervento pratico e un performativo tecnico nell’energia stessa della sua essenza.
Necessaria riproposizione del Timore e tremore kierkegaardiano: la tentazione dell'etica può tenere il passo di fronte alla relazione con il totalmente Altro? In questo trattato, potremmo dire di filosofia della religione, Derrida ripropone l'episodio ebraico del sacrificio di Isacco, passando attraverso i saggi patockiani.
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