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Anno edizione: 1997
Dodici lezioni di uno dei più grandi intellettuali europei, che passa in rassegna, esponendolo e discutendolo ampiamente e con chiarezza, il pensiero di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei, da Hegel agli hegeliani di sinistra e di destra, a Nietzsche, Heidegger, Derrida, Bataille, Foucault, Horkheimer, Adorno...
Un libro insostituibile per orientarsi nell'attuale dibattito filosofico.
(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di Ferraris, M., L'Indice 1988, n. 1
Il discorso filosofico della modernità si sviluppa molto tempo dono la nascita della filosofia moderna, dopo la critica della scolastica, dopo l'imporsi della nuova scienza dopo la Riforma, dopo la "Querelle des Anciens et des Modernes", e persino dopo l'illuminismo come filosofia moderna per eccellenza. Non l'illuminismo e il moderno, ma la loro revisione dialettica (dunque, insieme, la loro critica e giustificazione) costituisce il discorso filosofico del moderno, che trova quindi il proprio atto di nascita in Hegel. È questa la prima tesi del libro di Habermas sul "Discorso filosofico della modernità", è uscito in Germania nel 1985. "Hegel per primo eleva a problema filosofico quel processo di distacco della modernità dalle suggestioni normative del passato che non rientrano in essa" (p. 16). Scoprendosi finalmente come epoca, e soprattutto come quell'epoca che si pensa come tale (il che non è affatto ovvio n‚ comune a tutte le epoche), come emancipata dal passato e dai sistemi di riferimento della tradizione, cioè appunto riconoscendosi come 'moderna' in senso insieme ovvio e enfatico, la modernità si trova immediatamente presa in un vicolo cieco. Il moderno infatti non può che riferirsi a se stesso, pena il negarsi come moderno; il che vuole anche dire che nella modernità i soggetti sono interamente rimessi a sé, non possono riconoscere norme e valori se non nella struttura della propria autocoscienza. "Allora (...) si pone il problema se il principio della soggettività, e la struttura dell'autocoscienza ad essa immanente, siano sufficienti quale fonte di orientamenti normativi - se bastino non soltanto a 'fondare' scienza, morale ed arte in genere, bensì anche a rendere stabile una formazione storica che si è affrancata da tutti gli obblighi storici. Ora la questione è se dalla soggettività e dall'autocoscienza si possano acquisire criteri che siano desunti dal mondo moderno e al contempo siano adatti per orientarsi in esso; il che però vuoi anche dire: per criticare una modernità che non è in pace con se stessa" (p. 21).
Se la soggettività è il principio dell'età moderna, proprio nella misura in cui il moderno non vuole riferirsi a altro che a sé, il problema della dialettica dell'illuminismo come critica e insieme come giustificazione del moderno si presenta come la questione della critica della soggettività, di un oltrepassamento di una ragione soggettocentrica di cui si riconoscono pienamente i limiti - ma un oltrepassamento che non può ripiegarsi sui modelli del passato, pena negarsi come moderno, e dunque come autentico oltrepassamento. Il concetto di spirito assoluto in Hegel sembra sintetizzare queste aporie: lo spirito soggettivo si conserva e si trascende nell'assoluto - ma l'assoluto cessa di essere inscritto nel tempo, dunque non è più moderno; e, d'altra parte, l'assoluto trattiene ancora in sé le tracce troppo umane del soggetto, vale a dire che la critica della soggettività è condotta qui a partire da una ragione soggettocentrica.
Se si lascia da parte l'ingannevole soluzione di un auto-oltrepassamento della ragione soggettiva nello spirito assoluto, il discorso filosofico del moderno si avvita su se stesso. Dobbiamo criticare la soggettività in quanto limitata, spesso "irrazionale", e sempre disposta a realizzarsi in forme autoritarie; ma come possiamo farlo, se non attraverso la ragione come organo della soggettività, cioè come autoriflessione del soggetto su se stesso? e i risultati di questa critica che cosa saranno, se non ancora una volta le astuzie della ragione soggettocentrica - cioè un rimedio che, se non è peggiore del male, quantomeno è uguale a esso?
"Nel discorso della modernità i suoi accusatori le muovono un rimprovero, che nella sostanza non si è mai modificato da Hegel e Marx fino a Nietzsche e Heidegger, da Bataille e Lacan fino a Foucault e Derrida. L'accusa è diretta contro una ragione che si fonda nel principio della soggettività; ed afferma che questa ragione denuncia e scalza tutte le forme esplicite dell'oppressione e dello sfruttamento, della degradazione e dell'estraniazione, soltanto per istallare al loro posto il più inattaccabile dominio della razionalità stessa" (p. 57).
Ben più di Marx, Nietzsche è il primo grande interprete di questo disagio. La critica della riflessione viene portata sino alle estreme conseguenze - quelle di negare la riflessione e il soggetto in cui questa si produce, per additare un al di là dell'umano troppo-umano nella volontà di potenza. Analogamente, all'apice della modernità, il moderno viene gettato da parte, nella ricerca delle origini della razionalità, per esempio nel mondo dionisiaco dei greci preclassici. Con un gesto che sarà destinato a ripetersi più volte nella storia del discorso filosofico del moderno, l'oltrepassamento delle angustie della modernità, della sua ragione e del suo soggetto, viene cercato in un passato immemorabile, non ancora contaminato da quel principio di ragione il cui primo imporsi (con la morte della tragedia) e la profezia delle aporie che si imporranno nella modernità ottocentesca. "Nietzsche adopera la scala della ragione storica per gettarla via alla fine, e mettere piede nel mito, nell'Altro della ragione (...) Per questa via i 'tardivi' della modernità che pensano antiquariamente devono divenire i 'precursori' di un'epoca postmoderna - un programma che Heidegger riprenderà in "Sein und Zeit"" (p. 89).
Nietzsche "manda in congedo la dialettica dell'illuminismo" affidandosi al mito e alla volontà di potenza come altro (ma anche come essenza) della ragione soggettocentrica e strumentale. Horkheimer e Adorno si tengono invece disperatamente aggrappati alla dialettica dell'illuminismo, al principio secondo cui la ragione strumentale può essere criticata solo attraverso la ragione. Ma l'aporia non muta, visto che e semplicemente il rovescio speculare della posizione di Nietzsche: o si identifica la ragione con una teoria della potenza, con Nietzsche (e poi con Foucault), e allora ci si preclude la possibilità di qualsiasi critica dell'effettuale; oppure si mantiene uno spiraglio aperto alla critica, ma questa permane ineffettuale, proprio perché non può appellarsi a alcun principio globale per giustificare le proprie negazioni ad hoc. "Il tutto è falso", o meglio è perverso, cioè totalitario e amministrativo; la ragione non può dunque che negare, di volta in volta, "coup par coup" ma questa negazione resta un sogno estetico, l'utopia di una redenzione che Si nega (perché se no si rivelerebbe come totalitaria), e un affetto inutile, perché soltanto leso, verso epoche tramontate e non ancora attraversate dalla lacerazione del moderno. (Ma Habermas, qui, non sviluppa fino in fondo l'ineffettualità della dialettica negativa, proprio perché continua a condividere con Horkheimer e Adorno almeno un presupposto, l'utopia - insieme postulata e negata - di una vita vera e di una comunicazione senza limiti n‚ costrizioni).
L'accoppiata della critica della soggettività che mira a un al di là del soggetto, e della critica della modernità che mira a un al di là del moderno che di fatto è un regresso all'arcaico si ripropone invece con Heidegger e con Derrida. "Heidegger vorrebbe riprendere i motivi essenziali del messianismo dionisiaco di Nietzsche, sfuggendo però alle aporie di una critica della ragione che si riferisce a se stessa. Il Nietzsche che operava 'scientificamente' voleva ribaltare il pensiero moderno lungo le vie di una genealogia della fede nella verità e del) ideale ascetico; Heidegger, che in questa strategia di smascheramento basata sulla teoria del potere subodora un non eliminato residuo di illuminismo, si attiene piuttosto al Nietzsche 'filosofo'. Lo scopo che Nietzsche perseguiva con una critica totalizzante e autodistruttiva della ideologia, Heidegger vuole raggiungerlo con una distruzione immanente della metafisica occidentale" (p. 101). "La filosofia del soggetto deve essere oltrepassata dalla concettualità altrettanto precisa e sistematica, ma anche più profonda, di un'ontologia esistenziale" (p. 147). Il vitalismo di Nietzsche, mediato attraverso le filosofie della vita di Bergson o di Dilthey, viene portato a una diversa levatura filosofica. In un clima culturale in cui la filosofia si riduceva ad ancella delle scienze dello spirito, Heidegger osò un colpo di mano destinato a una larghissima fortuna: quello di riproporre il problema eminentemente filosofico dell'ontologia, e di trasformare le aporie della dialettica moderna della critica del soggetto in una questione ben più densa e ampia, quella della storia della metafisica come origine delle aporie del moderno. Superare l' 'impasse' della dialettica dell'illuminismo significa qui relativizzarla, mostrandola come l'esito modesto e caduco di una più fondamentale parabola storica, per cui l'imporsi della soggettività e della sua ragione come manipolazione strumentale degli enti è la causa delle aporie nichilistiche del moderno. Il discorso sull'essere che non è l'essere dell'ente costituisce dunque l'orizzonte entro cui il discorso filosofico della modernità si rivela come relativo e dipendente - e dunque anche oltrepassabile attraverso un salutare regresso: forse non abbiamo ancora incominciato a pensare, e se pensassimo davvero forse non ci troveremmo impigliati nella dialettica dell'illuminismo. Fra la teoria della potenza che esclude la critica, e la negazione determinata ad hoc che si consegna all'ineffettualità, si apre una terza via che in realtà è prima, più originaria e fondamentale. Anche la soggettività qui si rivela come un assoluto moderno, dunque come una variabile dipendente della storia della metafisica; la stessa contrapposizione soggetto-oggetto è già un esito dell'identificazione dell'essere con l'ente come oggetto disponibile per un soggetto. Una ermeneutica della tradizione che si ponga seriamente il problema dell'essere è già salva di fronte alle impasses della riflessione. E così pure, in Derrida, il linguaggio come veicolo della tradizione ci consente di superare la sfera della ragione soggettocentrica. Contro Husserl, "Derrida ora biasima a ragione che (...) il linguaggio Gene ridotto a quelle parti che sono adatte per la coscienza o per il discorso che constata i fatti. La
logica mantiene il primato sulla grammatica, la funzione conoscitiva sulla funzione dell'intesa" (p. 176). "La 'scrittura originaria' rende possibile - per così dire senza intervento del soggetto trascendentale - e precedendo le operazioni di questo soggetto - le differenziazioni dischiudenti il mondo tra l'elemento intelligibile dei significati e l'elemento empirico che giunge a manifestarsi all'interno del suo orizzonte, fra il mondo e l'intramondano" (p. 181). Il primato della lettera sullo spirito diviene qui primato della scrittura sulla coscienza. La soluzione delle aporie della riflessione e della soggettività era, per così dire, già lì sotto gli occhi di tutti, nella tradizione metafisica trasmessa dalla scrittura: una idealità assoluta anteriore alla differenziazione tra soggetto e oggetto, che al tempo stesso tramanda le forme di pensiero del passato (permettendoci di relativizzare il nostro presente) e insieme, proprio in quanto è traccia scritta e non dialogo vivente, si presta a una infinita esegesi in cui il moderno può trovare le vie della propria emancipazione.
Saltando a pie' pari i capitoli su Bataille e su Foucault (che in buona sostanza, e con ottimi argomenti, riprendono la critica della teoria della potenza in Nietzsche, e sottolineano l' "arbitraria partiticità di una critica che non può provare i suoi fondamenti" (p. 280), vorrei arrivare subito alle conclusioni. Habermas ha sicuramente buon gioco a criticare le teorie del potere in Foucault, o le teorie dell'estasi in Bataille, che si risolvono o nella mitizzazione di un Altro radicale rispetto alla ragione, oppure nella semplice sussunzione della razionalità nella economia più generale di quell'Altro (estasi, "dépense", potere).
Ma d'altra parte Habermas sembra non cogliere nel segno quando condanna la decostruzione heideggeriana e derridiana in base all'argomento secondo cui si tratterebbe di forme regressive di ritorno all'originario.
In Heidegger (e soprattutto in Derrida, che se non altro per motivi anagrafici è distante dal ricorso heideggeriano al vitalismo, e allo stesso bisogno ontologico in quanto autenticità o originarietà) la decostruzione comporta anzitutto un momento procedurale, vale a dire quel vaglio storiografico dello sviluppo della metafisica il cui esito è il moderno e le sue contraddizioni di cui si diceva più sopra. Ma soprattutto ciò che pare problematico (qui come ovunque nella riflessione habermasiana) è la prospettiva teoretica che orienta la ricostruzione storiografica del moderno. Oltrepassare il soggettivismo moderno restando nel moderno significa, per Habermas, proporre un sistema di razionalità dialogica in cui il solipsismo monologico viene interrotto attraverso un agire orientato all'intesa che definisce di volta in volta gli standard di razionalità. Questo atteggiamento teoretico condivide con l'ontologia ermeneutica di Gadamer l'intrinseca debolezza insita nell'idealizzazione del dialogo (chi può assicurarci che i dialoghi siano fatti per intendersi razionalmente, e che non siano piuttosto determinati, poniamo, da una volontà di potenza che trasforma il dialogo in una 'disputatio' agonistica? e non si può neanche opporre a questo la considerazione secondo cui i dialoghi agonistici non possono accedere alla dignità filosofica del "Diskurs": la sofistica è appunto il caso non eludibile di un discorso filosofico che si appoggia su basi agonistiche).
Ma non solo Habermas condivide il punto debole dell'idea gadameriana di dialogo. Il fatto è che non può condividerne i punti di forza: per esempio, che noi sempre, bene o male, dialoghiamo, e quindi il dialogo non è certo un ottativo filosofico da proporsi come fine (e dunque bisognoso di giustificazione), ma piuttosto si presenta come ciò che ovviamente avviene appena incominciamo a parlare (così che non si tratta di giustificare il dialogo, n‚ di porlo come fine per la filosofia). Così pure, l'antitradizionalismo di Habermas gli preclude le risorse offerte dalla tradizione filosofica, che consentono di relativizzare il moderno, e il cerchio magico della dialettica dell'illuminismo. Habermas non prende mai definitivamente congedo dalla dialettica negativa, che pure in questo libro viene posta come una semplice figura della fenomenologia del moderno. Di qui per esempio il sospetto verso la filosofia (quel sospetto che indusse Horkheimer a parlare di "teoria critica" opponendola alla "teoria tradizionale"; e che spinge Habermas, qui come altrove, a demonizzare i ricorsi alla filosofia come moti conservatoristici): "Ciò che prima spettava alla filosofia trascendentale, cioè l'analisi intuitiva dell'autocoscienza, ora si inserisce nel circolo delle scienze ricostruttive, che dalla prospettiva di partecipanti a discorsi e interazioni cerca di rendere esplicito il sapere processuale preteoretico di soggetti che parlano, agiscono e conoscono con competenza" (p. 300). Di qui anche il permanere della negazione ad hoc, che peraltro Habermas riconosceva come ineffettuale, e che pure si trasforma in una affermazione ad hoc che non pare fornire garanzie più solide: "La ricostruzione razionale ex Post si dedica al programma di render coscienti, ma si rivolge a sistemi anonimi di regole e non si riferisce a totalità" (p. 302). Di qui, infine, il capovolgimento di prospettive per cui il ricorso storico-archeologico al passato come relativizzazione del presente - da Nietzsche a Derrida, passando per Heidegger e Gadamer -si trasforma in Habermas in una propensione utopica verso il futuro - un futuro che si nega come totalità, e quindi si nasconde, ma che mantiene una funzione normativa tanto più forte quanto più è implicita, orientando la teleologia della ragione secondo Habermas: "Noi chiamiamo 'razionalità' anzitutto quella disposizione di soggetti capaci di parlare e di agire ad acquisire ed impiegare un sapere fallibile" (p. 315).
recensione di Rusconi, G.E., L'Indice 1988, n. 1
1. È paradossale che Jürgen Habermas, considerato il legittimo continuatore della Teoria Critica francofortese, che ha prodotto una delle critiche più radicali del razionalismo moderno, possa apparire oggi un difensore della modernità. Si espone così alla polemica (talvolta al semplice dileggio) di quegli intellettuali che con argomenti seri (ma talvolta con sole chiacchiere) parlano con insistenza di post-moderno. Il discorso filosofico della modernità affronta tematicamente questo punto e aiuta a capire il paradosso.
Il lavoro di Habermas presenta i tratti tipici di tutta la sua produzione: evocazione di moltissimi temi e autori, analisi dei testi e loro attualizzazione pratica, letture trasversali (Heidegger e Foucault, Benjamin e Bataille).
Come pochi, Habermas sa padroneggiare tanti diversi spunti problematici, organizzandoli lungo linee interpretative che puntualmente portano alla sua proposta intellettuale, ai confini tra filosofia e sociologia. Siamo davanti ad una straordinaria capacità di sintesi o ad un'operazione eclettica? La proposta habermasiana della teoria dell'agire comunicativo può considerarsi davvero la prosecuzione e il compimento del "discorso filosofico della modernità"?
Diciamo subito che l'impresa intellettuale di Habermas impressiona per la ricchezza di motivi, per il puntiglio e la passione, ma non convince sino in fondo. Le sue argomentazioni raggiungono però lo scopo di farci diffidare dei frettolosi ed enfatici "congedi dal moderno", segnalando aporie e paradossi che tengono ancora aperto il discorso della e sulla modernità.
2. La tesi-chiave del ragionamento di Habermas è semplice: alla modernità, all'illuminismo è insita - sin dall'inizio - una ambivalenza o dialettica che può essere liquidata dal o nel postmoderno solo al prezzo dell'antimodernismo. Si dimentica cioè che all'essenza del moderno appartiene da sempre la propria interna negazione. L'ambizione di Habermas è mantenere e riformulare questa tensione, ambivalenza, dialettica del moderno (tra l 'altro, il fatidico termine "dialettica" ricompare ora esplicitamente dopo una lunga assenza o latenza). A questo obiettivo risponde la costruzione teorica della "razionalità comunicativa".
I passaggi essenziali di questa teoria sono il superamento della centralità del soggetto a favore della intersoggettività del comunicare e la sostituzione del paradigma della coscienza (plasmato tradizionalmente sulla conoscenza dell'oggetto) con il paradigma dell'interscambio comunicativo (basato su reciproche pretese di verità falsificabili).
Di fatto il lettore de "Il discorso filosofico" della modernità, nel bel mezzo dell'esegesi critica di Nietzsche, Heidegger o Derrida, si trova davanti a spezzoni di questo ragionamento, in modo spesso apodittico o estremamente conciso - salvo che nel capitolo finale. Il fatto è che l'intelaiatura teorica di questo libro presuppone il discorso fondativo dell'opera fondamentale "Teoria dell'agire comunicativo" (Il Mulino 1986). È in quest'opera che sono sviluppati gli argomenti che giustificano la nuova idea della razionalità comunicativa. "Il discorso filosofico della modernità" rappresenta una estensione e una rideclinazione di questi motivi; ma il lettore ignaro dell'altra opera rimane inevitabilmente perplesso per il modo in cui viene introdotto (ad esempio) il concetto di " mondo della vita" o quello di "contraddizione performativa" - concetti che hanno un ruolo decisivo nel ragionamento habermasiano.
3. Una delle caratteristiche di Habermas è quella di procedere senza definizioni fisse o protocollari. Così, invano cerchiamo una definizione di partenza di modernità. "Moderno" segnala semplicemente un complesso di riflessioni filosofiche e un insieme di processi sociali (che attengono alla organizzazione societaria e alla istituzionalizzazione politica) originariamente guidati da un'idea di razionalità che oggi è andata apparentemente perduta. In proposito, all'inizio del libro si parla di scissione tra modernità e contesto storico del razionalismo, per cui "i processi di modernizzazione non possono più venire concepiti come un'oggettivazione storica di strutture razionali".
Di fronte a questo fatto ci sono due tipi di reazione qualificabili come "post-moderno". C'è un post-moderno neo-conservatore, che accetta come irreversibile la scissione tra la modernizzazione tecnico-sociale e la sua autocomprensione culturale, che diventa obsoleta sino ad estinguersi. Per dirla con Gehlen: "la storia delle idee è conclusa". Ma c'è un post-moderno anarchico o anti-umanistico, che contesta il presunto sganciamento tra la modernità sociale e la sua cultura razionalistica. Si tratta piuttosto di un inveramento e smascheramento del vero volto del razionalismo e dell'illuminismo, come "soggettività assoggettante e al contempo soggiogata, come volontà di impadronimento strumentale". La denuncia dell'equivalenza tra dominio e ratio moderna ritorna in tanti autori tra loro diversissimi per percorso intellettuale, sensibilità, vigore teorico. Ciò che li accomuna (secondo Habermas) è la pretesa di negare in blocco e di uscire dalla modernità e dalla sua razionalità. Habermas replica che questa presunzione di fuoriuscita o di annuncio della fine della modernità non solo è autocontraddittoria, ma perpetua un'idea unilaterale e scorretta di modernità. Per ricostituire nella sua completezza e ambivalenza l'esperienza del moderno, il Nostro ripercorre (ancora una volta!) l'asse Hegel-Nietzsche, senza mai perdere di vista Marx.
4. Gli esegeti dell'uno o dell'altro classico avranno senz'altro molte obiezioni contro la rivisitazione che ne fa Habermas. In questa sede trascureremo questo aspetto, per concentrarci sulla strategia argomentativa. Essa ha due passaggi obbligati: (a) l'intenzione di riprendere risolutamente un indirizzo di pensiero che era immanente nella modernità, ma è andato perduto con la sua progressiva chiusura nella "filosofia del soggetto"; (b) il ripudio della negazione radicale, totalizzante della modernità operata dai nietzschiani e dai francofortesi; contro di essi viene aggiornato il classico argomento contro lo scettico (che non può negare ogni proposizione senza autofalsificarsi).
Per (a) basta una citazione: "Se alla fine risultasse che anche la strada di Nietzsche non conduce seriamente fuori dalla filosofia del soggetto, non dovremmo ritornare a quella alternativa che Hegel a Jena aveva lasciato cadere a sinistra - ad un concetto di ragione comunicativa che pone in luce diversa la dialettica dell'illuminismo? Forse il discorso della modernità ha preso la direzione sbagliata proprio a quel crocevia, di fronte al quale si era fermato il giovane Marx". Di fatto Marx ha abbandonato, sì, il soggetto idealistico a favore del concetto di prassi, ma fissandolo al paradigma del lavoro, della produzione. "Soltanto il mutamento di paradigma dall'attività produttiva all'agire comunicativo e la riformulazione in termini di teoria della comunicazione del concetto di 'mondo della vita ' fa nuovamente reincontrare le due tradizioni".
Quello citato è un tipico passaggio che pone il lettore davanti ad un rimando concettuale ('il mondo della vita') senza che gli siano forniti elementi probanti (sviluppati nella già ricordata "Teoria dell'agire comunicativo"). E il riferimento è cruciale perché soltanto grazie alla ripresa del tema del "Lebenswelt" Habermas può parlare di una nuova "intima relazione tra prassi e razionalità", e addirittura di "contenuti normativi" della razionalità comunicativa. A proposito di (b), Habermas riformula con energia le sue riserve contro il tentativo "dilatorio", "ambiguo", "livellatore" di Horkheimer e Adorno di cogliere la dialettica dell'illuminismo, nel loro libro che porta quel titolo. Secondo Habermas, Horkheimer e Adorno non rendono giustizia alla dinamica teoria del moderno che spinge oltre il sapere tecnicamente utilizzabile, non riconoscono le basi universalistiche del diritto e della morale che hanno trovato una sia pur parziale e distorta incarnazione negli Stati costituzionali. Insomma non colgono le ambivalenze della modernità, che vanno al contrario ammesse e riconcettualizzate.
5. Dopo questa presa di posizione, è difficile ignorare la distanza che separa Habermas dai suoi supposti maestri. Credo sia opportuno smetterla con la finzione accademica di una sua continuità con la Teoria Critica classica. La sua "teoria comunicativa" vuol essere la ripresa del discorso della modernità intesa come istanza di ragione pubblica e dialogante. Discorso che è stato deviato in una filosofia del soggetto, che ha provocato, di riflesso, la reazione di tutto ciò che è "altro" dal soggetto razionale, sino alla sua radicale negazione. L'ultima forma di questa negazione è da ravvisare nella logica del sistema autosufficiente.
Contro questi tentativi di liquidazione del razionale, Habermas tiene fermo il principio della razionalità come "disposizione di soggetti, in grado di parlare e di agire, ad acquisire e impiegare un sapere fallibile".
Non so se questo assunto-base dell'agire comunicativo possa davvero sostenere tutti gli svariati argomenti che Habermas mette in campo nella sua ripresa critica della modernità. Come dicevo all'inizio, il tentativo di combinare la ricostruzione delle ambivalenze del moderno con i temi della "teoria comunicativa" è un'impresa ambiziosa non priva di ambiguità. Un punto di particolare delicatezza è l'uso dei concetti di soggetto e coscienza. Da un lato essi sono i principali imputati dell'involuzione "soggetto-centrica" e "coscienzialista" della modernità, ma dall'altro essi devono essere difesi dall'accusa di essere meri residui vetero-europei. Habermas, focalizzando l'intersoggettività dell'intesa, "decentra" il soggetto, ma nel contempo lo salvaguarda come partner di una comunicazione che non è scambio di mere opinioni ma di "ragioni".
È una strada impervia. Ma Habermas è un lavoratore indefesso, ostinato; da decenni muta impercettibilmente categorie e paradigmi pur di tenere vivo un concetto forte, integro, critico, normativo di razionalità. Continuatore o grande epigono della modernità? Personalmente, continuo a imparare più da lui, dalle sue incertezze e incongruenze, che non da chi ha una gran fretta di liberarsene.
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