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Il ritorno di Everett su album, dopo una "pausa" artistica di quattro anni (se escludiamo il live al Royal Albert Hall), è un appuntamento che passa forse un po' in sordina nel mondo alternative, ma timidamente aggiunge un altro, prezioso (per i fans) tassello alla già piuttosto prolifica discografia di uno dei frontman più tormentati spuntati fuori dalla lunga lista degli anni 90. Stavolta, neanche in modo così sorprendente, abbiamo a che fare con brani più ariosi, non sempre eccezionali (specialmente nei momenti più acustici, in altri album un cavallo di battaglia degli Eels), ma almeno gradevoli nel peggiore dei casi. La doppietta iniziale, in particolare, con la title-track e "Bone dry", è notevole e ispirata, e riesce a scavare piuttosto in profondità; questi momenti, assieme a "Rusty pipes", sono esempi di una scrittura ormai matura e consapevole, tra un garage rock al solito molto raccolto e ritmi essenziali, vicini a certi beat del trip hop più incisivo, con la ormai classica firma agrodolce della band. Non mancano attimi più spensierati (come la nota al piccolo pubblico "Today is the day"), e come accennato neanche quelli più intimi: forse quello che manca è qualche canzone sopra le righe, e in generale un'urgenza maggiore nella seconda metà dell'album (un po' spenta nei suoi tentativi di trasmettere serenità zen). Novità grosse non sono pervenute, magari qualche arco in più, ma niente di sovversivo. Un buon lavoro insomma, probabilmente più per Everett stesso che per gli ascoltatori, per la sua (forse?) ritrovata riconciliazione con il mondo esterno.
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