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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2017
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È il giardino d’inverno, è la serra che protegge e garantisce luce – più luce! –, l’origine dell’architettura in vetro e in ferro che da metà Ottocento mutò il volto architettonico dell’Europa e le condizioni percettive dei suoi abitanti. È la serra. Lo osservava Alfred Gotthold Meyer nel postumo, Eisenbauten (1907), e ne prendeva nota Walter Benjamin nei fittissimi appunti per i «Passages» di Parigi (F 4, 1). Fu il capo-giardiniere del duca di Davonshire, se mai occorresse una prova, a ideare il palazzo di cristallo che nel 1851, a Londra, lasciò stupefatti i visitatori della prima esposizione universale. Il progetto di Joseph Paxton riuscì a imporsi sugli altri perché si mostrò «conveniente – così Benjamin (G 2a, 8) – per la sicurezza in caso di incendi, per la luminosità, per la possibilità di rapida attuazione e per la modicità della spesa». Le considerazioni estetiche sarebbero venute dopo. L’effetto sul pubblico fu subito l’ammirazione: il Crystal Palace comprendeva al suo interno un’intera fila di olmi e una fontana di cristalli, le sue ampiezza era sorprendente, lo scintillio delle luci esaltante. Doveva contenere tutto, tutto ciò che le industrie dei diversi paesi del mondo erano in grado di produrre. La praticità di materiali che già da qualche decennio erano impiegati nella costruzione di ferrovie e ponti si unì allora alle caratteristiche della serra: un luogo di passaggio ma anche un habitat artificiale, una relazione tra interno ed esterno fondata sulla contiguità e sulla separatezza al tempo stesso. Sull’esibizione e sulla tutela delle merci.
Al mito della trasparenza, quale da allora si è costituito ed evoluto fino ai nostri giorni, tra accesi sostenitori e avvertiti detrattori, è dedicato Critica della trasparenza di Riccardo Donati. La prospettiva del saggio non è specificamente architettonica – Donati è uno storico e critico della letteratura – quanto interdisciplinare: attraverso opere letterarie e arti della visione indaga nell’immaginario seguendo il concetto di purovisibilità, e segnatamente il portato funzionale e quello finzionale degli edifici in vetro. L’arco della ricostruzione si estende per oltre un secolo e mezzo. Se è vero che il libro prende le mosse dal Palace costruito nel 1851 per arrivare a I Simpson, il film del 2007 e al romanzo Under the Dome pubblicato da Stephen King nel 2009, è pur vero che non trascura né la nascita delle vetrine «nella Londra di Sterne e del reverendo Swift», né il Panopticon ideato da Bentham nel 1791 e la riflessione che Foucault gli ha destinato evidenziando sia l’utopia di «una società trasparente», di eco roussoiana, sia l’«esercizio di un potere “onnivedente”».
L’idea del guardiano unico, mitica al pari della totale e perfetta visibilità, fa convergere, rende sovrapponibili, interscambiabili se non identici, l’occhio di Dio e il controllo del capitale. La trasparenza delle pareti è meraviglia e minaccia: il saggio di Riccardo Donati indaga come la cultura letteraria e quella artistica abbiano oscillato tra queste due polarità, con tutte le sfumature e le implicazioni sottese. Dalla voce che nella Prospettiva Nevskij di Gogol’ distoglie lo sguardo dai «ninnoli» delle vetrine che «puzzano di una terribile quantità di biglietti», all’Alexandre Dumas di un resoconto giornalistico sul Crystal Palace – «non c’è niente di artistico, ma l’industria, elevata a questi livelli, è sorella dell’arte» –, al severo Ruskin che «inizia a scorgere l’incubo dietro il sogno […], l’immagine spettrale di un glass bazaar costruito col sudore di operai-schiavi», come osserva Donati.
Le ricadute commerciali dell’ipervetrina sono ampie: i capitalisti ne comprendono le possibilità, ma anche molti intellettuali riformatori sono «pronti a interpretarla come uno straordinario elemento di discontinuità rispetto al passato, promessa di futura età dell’emancipazione e dell’uguaglianza». Proprio su questo punto, sulla dicotomia interpretativa, il libro offre i contributi più interessanti. Nell’itinerario che lega le due parti del saggio, La società a venire e La società avvenuta, Donati mette a fuoco alcune tra le letture di maggior rilievo socio-culturale: il palazzo-fabbrica-casa trasparente, falansterio felice e civilissimo, nell’utopico romanzo di Cernyševskij Che fare?; le costruzioni ideate da Scheerbart come corpi luminosi cangianti e la poetica estetizzante e sensibilissima di Taut, il «cristallino-indistruttibile-eterno» di Zamjatin, le osservazioni di Benjamin sulla sobrietà del vetro che, «privo di aura», può contrastare il delirio di possesso della borghesia perché abolisce il segreto e vanifica il concetto di casa come custodia delle tracce lasciate dal suo proprietario. E il «tetto di cristallo» che copre la joyciana Bloomusalemme, svelandone la forma di «immenso rognone di maiale».
Il mito della trasparenza è certo ben noto, non è questa la novità del saggio. Il suo pregio, piuttosto, è nel taglio della ricostruzione e nel metodo fondato sulla ricchezza delle citazioni che lo rendono libro documentatissimo e leggibile, tuttavia, come una coinvolgente narrazione, tanto se ne coglie la sottostante passione d’autore. Quella che lo porta a chiedersi perché Benjamin «fraintenda» Scheerbart, a interpretare i significati ludici, politici, voyeuristici della palazzeschianaUna casina di cristallo, della maison de verre in Nadja, del Grand verre di Duchamp, e a dare ottima e fine lettura a un intervento di Bontempelli sulla Casa del Fascio eretta a Como da Terragni.
Che lo straordinario, polemico, mai realizzato Glass House di Ejzenštejn sia il nucleo o la fonte di tutto il libro dicono, nel tono, le pagine che gli sono dedicate. Geniale, raggelante prefigurazione apocalittica – un’allucinata e sterile città-acquario – che stride con l’assunto benjaminiano a proposito del surrealismo: «vivere tra pareti di vetro è una virtù rivoluzionaria». In queste opposizioni s’innescano i cortocircuiti eticamente più fertili: e qui va situata anche la difficile domanda conclusiva, posta nel segno di Bloch, su una riattivazione odierna (utopica?) del principio speranza.
Recensione di Cecilia Bello Minciacchi.
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