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Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
In un’intervista di Antonio Gnoli, dopo l’uscita del Gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti 2013), Francesco Permunian così rispondeva a una domanda sulla sofferenza psichica e sul suo ruolo all’interno della scrittura: «Passo parte dei miei giorni e delle mie notti a scrivere. Sono diventato uno scrivano della follia. Roberto Roversi mi avvertì: la follia va costeggiata, ma attento a non finirci dentro. E ho imparato a non esserne risucchiato. Anche se l’immagine del manicomio è in me sempre presente: come una falla nella stiva della normalità; come un dolore antico che si presenta sotto forma di voragine. A volte la chiamano pazzia, a volte fuga dalla realtà. Però il mio terrore è farne una macchietta, passare per lo strambo di provincia. In letteratura non serve il pittoresco. Servono lucidità e rigore». Follia, lucidità e rigore: sono queste le vie privilegiate per comprendere appieno il mondo straordinario di Permunian, che trova una nuova sistemazione editoriale in Costellazioni del crepuscolo, in cui sono raccolti Cronaca di un servo felice, apparso per la prima volta nel 1999 ed edito con lungimiranza dopo molti rifiuti editoriali da Meridiano Zero (che qui torna in una veste minimamente rinnovata) e Camminando nell’aria della sera, pubblicato invece da Rizzoli nel 2001. A far da cerniera tra le due ristampe un inedito anello di congiunzione, che dà il nome all’intero volume; ad arricchire infine la raccolta sta l’attenta prefazione di Salvatore Silvano Nigro, che ripercorre l’opera di Permunian riuscendo a dare ad essa una lettura univoca e storicizzando la figura dell’autore all’interno del canone contemporaneo.
Chi avesse quindi già letto i romanzi di Permunian nel passato, non troverà in questa nuova edizione sostanziali modifiche, se non un particolare che però, all’interno del preciso mondo di Permunian, assume una certa importanza. Non si trova più infatti nell’epigrafe alla parte seconda della Cronaca la citazione di Sergio Quinzio («La croce è la vera matrice del nichilismo, e la resurrezione è la possibilità di guardarlo») in modo che risalto esclusivo viene dato alla citazione di Thomas Bernhard: «ma da che altro avrei mai potuto trarre vantaggio se non da questa mia pazzia naturale che è oggetto di tutti i miei pensieri?». Il lavoro che ha compiuto allora lo scrittore è quello di dare ordinazione alla follia e costruirci sopra una narrazione certa. Perché la follia di cui parla Permunian non è solo uno stato allucinatorio lontano dalla realtà, ma è invece proprio la follia che si è annidata nella realtà e che adesso non consente di vedere intorno a noi quello che c’è davvero; in questo il romanzo non ha perso nulla della sua forza anche a quasi venti anni di distanza. Il nichilismo del ventunesimo secolo, nel quale, con le dovute eccezioni, è possibile far rientrare una serie di scrittori «settentrionali» come Maino e Trevisan oltre lo stesso Permunian, trova la sua radice in una concezione del mondo dove tutto è possibile e disponibile, dove sono state dispensate promesse che mai saranno mantenute, dove regnano ormai soltanto apparenze. La vecchia contessa e il mondo che ruota intorno a lei, nella Cronaca, sono l’estremo vessillo di un’aristocrazia sfinita che viene raccontata attraverso lo sguardo disincantato di un servo fedele, escluso dalla Storia e forse solo per questo in grado di rappresentare i personaggi – preti, dame ed intellettuali tra gli altri – con una lucidità che si esplica in un registro grottesco e visionario.
Camminando nell’aria della sera invece continua a rappresentare un mirabile coacervo di storie di provincia, intrecciate attraverso lo sguardo del protagonista, il dottor Porfirio Papas, che dalla finestra della sua casa, sul far della sera, ascolta e registra i personaggi e le voci della piazza sottostante. Il romanzo di Permunian costituisce una naturale continuazione della Cronaca, approfondendo l’analisi antropologica che caratterizza l’acutezza del suo sguardo. Anche in questo frangente, però, l’analisi e lo studio non portano alla serenità ma servono ancora, attraverso le manie di un bibliotecario, una zitella scrittrice di lettere d’amore senza destinatario o uno stralunato calzolaio che vede in un buon paio di scarpe l’unico modo per rincorrere la vita nel suo fluire, all’inesorabile scoperta di un buio che porta il dottore protagonista a uno stato di sonno «leggero come la morte», unica via di fuga da un desolante panorama anche qui costruito su illusioni e promesse destinate a non realizzarsi mai.
La novità di questo volume, come si diceva, risiede nel breve intermezzo di Costellazioni del crepuscolo. Pensieri e parole ai bordi della notte : testo molto prezioso perché permette di entrare nel mondo più intimo di Permunian, quello dove si muove il suo pensiero di scrittore, dove si situano le creazioni letterarie e i temi della sua scrittura, il vero e proprio «incubatorio letterario»: «Sul finire del secolo scorso, mentre ero alle prese con il mio primo romanzo, radunai e raccolsi in un faldone tutti quegli appunti sparsi e dispersi che, a vario titolo, potevano risultarmi utili per la versione definitiva di Cronaca di un servo felice. Su quel grosso faldone, an alto a destra, a un certo punto scrissi le parole Costellazioni del crepuscolo. Un titolo provvisorio il quale stava a indicare quella miriade di figure, mezze figure, figurine ed episodi anche minimi». Da ciò che scrive Permunian, si intuisce come questa galleria dia forma alle sue opere narrative. Si incontrano così, in quest’«arca di inesauribili incubi contagiosi», la patria, vista come «un luogo deserto e inospitale che sta tra il buio e la luce», un convento abitato solo da suore impazzite o sogni su un sanatorio che somiglia a quello in cui Kafka tentò invano di curare i suoi nervi. In un fulminante passaggio Permunian parla della scrittura e della letteratura, mostrando la sua umanità di uomo ferito dalla vita, che assegna però alle lettere un ruolo superiore: «Che serve ammattire per ritrovarsi infine tra le mani una pagina tutta sporca di ghirigori e di cancellature? La scrittura è un farmaco pieno di controindicazioni. Eppure, al pari di un buon sonnifero, una pagina di buona letteratura mi è bastata finora contro le turpitudini della vita».
Matteo Moca
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