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OTTIMO LIBRO , SOPRATUTTO PER ME CHE SONO UN "BAYLISTA" O ALMENO VORREI APPARTENERE A COLORO I QUALI SONO FANATICI DI STENDHAL. HO TROVATO IL ROMANZO DI UNA AUTENTICITà E VERIDICITà ENTUSIASMANTE, CON RIFERIMENTI A FATTI E PERSONAGGI INCREDIBILMENTE REALI. SI HA LA SENSAZIONE DI VIVERE CON "SUA SIGNORIA" IL CONSOLE ,LA VITA QUOTIDIANA DELLA CIVITAVECCHIA OTTOCENTESCA CON RIFERIMENTI A LUOGHI ASSULUTAMENTE REALI E NON REALISTICI . MI CHIEDO DOVE E COME ABBIA POTUTO L'AUTORE TROVARE LE FONTI STORICHE COSI PRECISE. BRAVO BARONE !!
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Nell'aprile del 1831, Stendhal ebbe l'incarico di console di Francia a Civitavecchia, dove soggiornò, pur con interruzioni (dovute per lo più a problemi di salute), fino al 1841. Le conseguenze di un colpo apoplettico, la gotta, assieme a una predisposizione malinconica, lo spingono a colorare di pacatezza un po' triste il resoconto di giornate in cui gli impegni istituzionali non gli impediscono di occuparsi dei cibi che quotidianamente gli vengono preparati dalla burbera governante, oltre alla selvaggina raccolta in battute di caccia un po' turistiche, al pesce, alle anguille gustate in scenari di rustica cortesia. E poi le donne, i protagonisti delle vicende della città (il suo porto, le osterie, il mercato), gli echi lontani della vita politica e di una Francia che riaffiora nella quotidianità come un mondo remoto, un po' dimenticato, talora presente come una noiosa routine.
Questo Stendhal quotidiano, un po' dimesso e immalinconito, ma sempre straordinario osservatore e conoscitore delle persone e della vita, è il protagonista dell'ultimo romanzo di Massimo Barone narratore, come ben sanno i suoi lettori- di efficacissima scrittura (Amici di chiave, 1998; Parco Nemorense, 2005) , costruito sull'immaginario carteggio di Stendhal con una dama romana, a cui sembra legarlo una duratura, affettuosa amicizia. La finzione delle lettere inviate dal console consente a Barone alcune astuzie narrative molto efficaci: il racconto diaristico in prima persona, con la narrazione delle giornate riempite di incontri, passeggiate, pranzi, riflessioni. Quindi l'alternanza tra questa narrazione al passato e la narrazione al presente, che rimanda a quella quotidianità un po' dimessa su cui si innesta la riflessione esistenziale. È qui che emerge a poco a poco il registro gnomico, esplicito negli ultimi passaggi del romanzo, quando il protagonista accenna a un suo onirico colloquio con i morti: il ritorno in patria come approssimazione alla conclusione, non solo del soggiorno a Civitavecchia, ma della vita stessa.
Il libro di Barone ha la inconsueta capacità di disegnare atmosfere, umori, tensioni, gioie con i pochi tratti di un linguaggio essenziale, secco, preciso e allusivo al tempo stesso. I dettagli quotidiani fissati come per un'ansia di vita e di comunicazione: la precisione del dettato delinea una modalità del racconto che smussa ogni possibile tentazione epica per guardare all'intimità malinconica del personaggio e restituirne l'umanità precaria, in fondo dolente. Il tutto poi disegnato all'interno di scenari animati: quelli di una città amata, insieme nota e sconosciuta, dove gli spazi deputati agli incontri (il mercato, l'osteria, la cucina, il porto
) hanno il fascino familiare dei topoi narrativi e insieme si pongono come autentici luoghi dell'anima, simboli di forte affettività, di contrasti, pulsioni, nostalgie. La bravura del narratore è proprio nel confondere le carte: nel condurre il lettore dietro gli umori del console, che passa dall'ironia, talora feroce, all'arguzia, alla meditata lettura del presente. Con una lingua efficacissima nell'aderire a una materia tanto duttile, distillandone sapientemente i significati: un esercizio di stile come omaggio allo scrittore geniale e a una città teatro di un'umanità appassionata e appassionante. Giorgio Patrizi
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